Anche quest’anno il Campania Teatro Festival ha prodotto e accolto, a Napoli e in altre città, artisti e performer italiani e stranieri che hanno proposto spettacoli presto in tournée. Tra questi anche due a tematica LGBT. Abbiamo intervistato Benedetto Sicca, regista di Laguna Café.
foto da “Laguna Café” di Ivan Nocera
Con quasi tre mesi di programmazione, anche quest’anno ha tagliato il traguardo il Campania Teatro Festival, diretto dal regista, scrittore e drammaturgo Ruggero Cappuccio che a Napoli e in altre località della regione ha chiamato un numero ragguardevole di celebri artisti italiani e stranieri, dando però anche spazio a giovani compagnie e performer.
Mantenendo le sue caratteristiche precipue, quelle cioè di manifestazione ricca di una polifonia di voci e con il più che conveniente prezzo dei biglietti, il fitto calendario consente la presenza anche di un vasto e attento pubblico locale che nel capoluogo ha riempito il teatro Nuovo, il San Ferdinando, il Mercadante, il Sannazzaro, la Galleria Toledo e la sala Assoli, nonché location non convenzionali come il teatro di Corte di Palazzo Reale, la Chiesa della Misericordia, senza dimenticare il teatro Mulino Pacifico di Benevento o il Comunale di Caserta.
La rassegna rispecchia la visione del direttore artistico che per questa edizione ha scelto il claim “BATTITI PER LA LIBERTÀ”, facendo coerentemente precedere gli spettacoli a una voce fuori campo che legge la poesia Se dovessi morire scritta da Refaat Alareer. Poeta, scrittore e docente di letteratura comparata all’università di Gaza oltre che attivista per i diritti umani, è deceduto lo scorso anno sotto un bombardamento aereo a soli 44 anni con tutta la sua famiglia.
Nella prefazione del catalogo, Cappuccio sottolinea che “A teatro scopriamo la nostra disponibilità a entrare in tutti i tempi e in tutti gli spazi, partecipiamo ai sentimenti di un personaggio e a quelli di tutti gli altri, compresi i nemici di colui che amiamo di più. Il teatro ci mette in condizione di rivelare a noi stessi l’esistenza di organi psichici che non sapevamo di possedere. Il teatro serve a preparare la luce nuova, oltre le paure, oltre la narcotizzazione della razionalità e della fantasia, e a preparare il tempo della libertà”.
Proprio dal suo romanzo La prima luce di Neruda, adattato e diretto da César Brie, è stata tratta l’omonima pièce che ha aperto il Festival, interpretata da Elio De Capitani, Cristina Crippa, Silvia Ferretti e Umberto Terruso, che si potrà vedere anche al teatro Elfo Puccini di Milano dal 7 maggio al 5 giugno 2025. Si racconta la vicenda del poeta e premio Nobel cileno che nel 1952 fu espulso dall’Italia, prima accompagnato da Napoli a Roma e poi estradato in Svizzera. Per protestare contro questo ingiusto provvedimento in molti lo attesero alla stazione della capitale, tra loro Alberto Moravia, Elsa Morante Renato Guttuso e Carlo Levi.
Si accennava alla presenza di celebri artisti stranieri e uno di fama mondiale è l’americano Robert Wilson che, oggi ottantatreenne, nella sua lunga carriera ci ha donato indimenticati capolavori. Nel restaurato galoppatoio della suggestiva Reggia di Portici ha mostrato il suo Ubu, ispirato all’Ubu re di Alfred Jarry, di cui ha firmato regia (insieme a Charles Chemin), scenografia e disegno luci. Commissionato nel 2022 per una mostra al Museu D’Es Baluard d’Art Contemporani di Palma di Maiorca, dedicata all’esplorazione compiuta dal pittore Joan Mirò (1893-1983) dell’opera di Jarry, voleva essere anche un tributo in occasione del 125° anniversario del debutto della pièce di cui lo stesso Mirò aveva realizzato un adattamento di chiaro spirito antifranchista.
Proseguendo con le ospitalità straniere, il drammaturgo, regista e coreografo belga Jan Fabre ha mostrato Io sono un errore, incentrato sulle figure del sovversivo cineasta spagnolo Luis Buñuel e del saggista. attore e drammaturgo francese Antonin Artaud, con in scena la performer Irene Urcioli. Sempre di Fabre, alla Sala Assoli ha debuttato I’m sorry, scritto da lui (su drammaturgia di Miet Martens) con Stella Hotter che ne è anche protagonista incarnando un personaggio confuso e smarrito in un mondo in continua evoluzione. Si scusa allora per tutto: per quello che dice, per come appare, per come si comporta, cercando una strada per uscire dall’autocensura.
Nat Randall e Anna Breckon firmano, invece, testo e regia di The Second Woman che al teatro di Corte di Palazzo Reale è durato ben 24 ore. Interpretato da Euridice Axen che recita la stessa scena per cento volte con altrettanti attori non professionisti, la pièce si ispira al film di John Cassavetes Opening Night (in italiano La sera della prima) con la magnifica Gena Rowlands da poco mancata. Il personaggio di Virginia attende in una stanza la visita di Marty con cui aveva in precedenza litigato. Altro atteso debutto è stato quello del nostro regista Jacopo Gassman (spesso scopritore di inediti e ottimi testi stranieri) nella sua rilettura delMacbeth scespiriano, offrendone una rivisitazione sicuramente originale, con Roberto Latini e Lucrezia Guidone protagonisti.
Nel corso degli anni il Festival ha sempre ospitato nel cartellone uno o più spettacoli a tematica LGBT e anche in questa edizione non sono mancati. Il primo è stato Il principe dei sogni belli, testo di Tobia Rossi, diretto da Pierpaolo Sepe, con Riccardo Festa e Noemi Francesca. La vicenda racconta di Elio, imprenditore edile di mezza età, che in una cittadina di provincia contratta con Dragon, un attraente ventenne dai capelli azzurri, prezzo e modalità della prestazione sessuale che il giovane dovrebbe offrire non a lui ma a suo figlio. Il nome del ragazzo, 23 anni, è Bruno ma si fa chiamare Joshi ed è autistico, chiuso quindi ermeticamente nel suo mondo. Essendo ormai adulto desidera però consumare il suo primo rapporto sessuale, ed è disposto ad averlo solo con Dragon, perché somiglia in tutto e per tutto all’eroe del suo manga preferito. È una favola amara che parla di crescita e cura, di paura e responsabilità, ma racconta anche la cronaca di un pomeriggio incandescente che procede a spirale sino a chiudersi sul concetto di menzogna.
Al Ridotto del teatro Mercadante un altro debutto molto atteso era quello di Laguna Cafè (prodotto in sinergia dal Teatro di Napoli e dal Campania Teatro Festival, in collaborazione con Casa del Contemporaneo) di cui Benedetto Sicca, più volte ospite al festival sulla drammaturgia LGBT Lecite Visioni di Milano, firma la regia su testo di Giuseppe Affinito, in scena Gianluca Merolli (Andrea) e lo stesso Affinito (Giosuè).
Due uomini si rincontrano dopo 10 anni in una sorta di resa dei conti della loro relazione. “Il luogo in cui s’incontrano – sottolinea l’autore e interprete – e che rievocano è un luogo di sogno, di potenza, di bellezza, in cui avere cura e poter essere anche piccoli e indifesi. Un mondo di libertà mancante all’interno delle nostre società, un mondo che ci vogliono nascondere, fatto dall’individuo stesso, dove le regole non attecchiscano, così grande da avere spazio per tutte le soggettività, dove non conviene più apparire o appartenere, dove si può finalmente essere. Ho scelto una dinamica apparentemente molto semplice, quella di un incontro tra due persone che si sono amate o hanno provato ad amarsi, in cui quasi chiunque può trovare capacità d’immedesimazione, per arrivare a parlare di qualcosa di molto più intimo e radicato: esplorare cioè, attraverso il linguaggio e i corpi, un certo disagio del contemporaneo rispetto all’amore, alle relazioni, ai sentimenti e alla sessualità”.
A pochi giorni dalla prima abbiamo sentito Benedetto Sicca per approfondire un po’ questo suo ultimo lavoro che speriamo di poter vedere presto anche in tournée.
Ci puoi dire qualcosa sulla genesi dello spettacolo?
Con Giuseppe sono amico da tanti anni e abbiamo un’affinità elettiva, intellettuale, artistica e politica e proprio per queste ragioni, non avendo mai collaborato, abbiamo pensato che era venuto il momento di lavorare insieme. Ci siamo confrontati a lungo sulla prima versione del testo che lui aveva scritto, poi abbiamo cominciato a lavorarci in una breve residenza a Napoli, anche per decidere se io sarei stato anche in scena oppure no. In questa occasione sono arrivati sia spunti per l’allestimento che la mia decisione di occuparmi solo della regia. Il processo è iniziato ed è stato un work in progress sino a non tanto tempo fa, con la scelta del secondo protagonista e del crew artistico, oltre ai progetti per la scenografia, i costumi, la drammaturgia musicale e le luci. Laguna Cafè nasce come un inno alla fragilità, una danza della tenerezza che è cosa semplicissima e delicata, a volte dimenticata, a volte temuta. Si mettono a nudo la vulnerabilità umana, l’inadeguatezza dei sentimenti e la ricerca di una verità condivisa.
E sulla trama?
È la storia di due uomini che s’incontrano e che dal dipanarsi dei loro discorsi apprendiamo non essersi visti per dieci anni dopo che, da giovani, si erano molto amati. Si ritrovano nel caffè (un po’ cadente e abbandonato) dove si erano conosciuti, un luogo che è anche un non luogo nel quale però in anni precedenti alla loro separazione hanno fatto esperienze, si sono scambiati energie e fluidi e sicuramente sono stati liberi. In quel non luogo si sono anche sentiti nel fantomatico safe space, cioè quello che probabilmente significa una relazione d’amore gratuito e profondo, dove non tutto è bello e non tutto è d’oro, ma in cui non solo puoi essere te stesso, ma senti di crescere anche attraverso l’altro oltre che con l’altro. Safe space è un concetto nel quale all’interno di una relazione non hai paura di esporti, di palesare chi sei veramente, quali sono le tue paure e fragilità e dove puoi gettare la maschera.
Andrea e Giosuè hanno vissuto questa esperienza. Si ritrovano accecati dal loro battito cardiaco e dalla luce dei propri desideri, in un viaggio sinestetico in cui il senso sta tutto nel percorso e non nell’approdo. Posso dirti che avevano una storia di una profondità, intensità e radicalità oltre il comune sentire, insomma una storia totalizzante. Questo almeno è quello che apprendiamo dai loro discorsi dieci anni dopo, però accade che la percezione della storia non sia uguale per entrambi. Giosuè (più giovane dell’ex partner di quindici anni), infatti, è ancora innamorato e vorrebbe tornare indietro di dieci anni, quando Andrea l’aveva lasciato e vorrebbe che lui condividesse il suo stesso desiderio di riprendere la relazione. Non siamo tanto nell’ambito, per dirla in parole povere, di riscaldare la minestra, quanto in un ambito esistenziale. In qualche modo Giosuè afferma che quello che avevano vissuto era vero mentre Andrea (tornato quel giorno nella località del non luogo per il funerale del padre) lo nega. Segnato dal tempo e dalla disillusione, lui rifiuta e si ritrae nella sua solitudine. Ecco che il non luogo, il Laguna Cafè, diventa metafora di questa affermazione e di questa negazione.
Perché mi accennavi anche a un incontro di anime?
Giosuè è un’anima che lotta per inseguire la propria passione rimanendo incastrata in un futuro che non arriverà mai. Andrea ha un’anima incastrata in un’esistenza che diviene il crudele diaframma tra il desiderio e la vita. Giosuè e Andrea – come tanti di noi – sono condannati a non poter evolvere, a non amare per davvero, ad aver bisogno l’uno dell’altro, a non potersi più desiderare, perché il desiderio, quello puro, non può essere un bisogno. Possiamo, infatti, chiamare amore solo ciò che è vita senza essere bisogno, il resto no.
Vista la componente metafisica del testo, come hai pensato di metterlo in scena e qual è l’intento nel proporlo allo spettatore?
Ci siamo in effetti interrogati su come portare sulla scena il desiderio di un’anima. Alla fine ci siamo messi davanti a un sipario chiuso: in un incastro di tempo in cui sovente anche le nostre anime si bloccano, in attesa di poter manifestare sé stesse e fluire libere da condizionamenti dell’Io e del mondo. In questo spazio non c’è posto per il desiderio ma solo per il bisogno. I due elementi principali su cui abbiamo giocato per la rappresentazione sono il sipario e la luce. La scena si ambienta davanti a un sipario nero dietro al quale c’è una grande installazione di luci che sarà una componente scenografica molto importante. Il retro del sipario è il luogo dove le emozioni di questi personaggi, soprattutto quelle di Giosuè, si manifestano indipendentemente dalla loro volontà. Mettere in scena un testo che parli di questa tematica in un’epoca oscurantista e reazionaria, in cui il linguaggio pubblico scivola verso una deriva intimidatoria che colpisce chiunque non si allinei a comportamenti normali, tranquillizzanti e di buon senso in quanto maggioritari mi pare uno dei compiti del teatro”.