La cultura omoerotica in Giappone ha una storia secolare, ma una presa di coscienza gay moderna iniziò solo nel 1971, in connessione con l’onda degli eventi succedutisi alle rivolte di Stonewall in varie parti del mondo. Fu la rivista Barazoku a gettare le fondamenta e ad aprire la strada. Il primo studio in lingua italiana a lei dedicato ci guida lungo quest’affascinante e inedito percorso.
In Occidente siamo stati abituati a considerare la nascita del movimento LGBT moderno solo come uno sviluppo politico organizzatosi a seguito dei moti di Stonewall avvenuti a New York nel 1969, che avrebbe portato l’anno seguente al primo corteo del gay pride, e a creare una diaspora che per esempio da noi guidò alla fondazione del FUORI! Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano nel 1971 a Torino. L’idea è quella di un involontario modello di “colonizzazione culturale” che ogni nazione ha replicato adattandolo alle proprie specificità geografiche, analisi affrontata da Frédéric Martel in Global Gay edito in Italia da Feltrinelli.
Se in effetti un filo rosso che si dipana dalla propria personale presa di coscienza e dal coming out ci accomuna a tutti e tutte ovunque e in ogni tempo, le difficoltà che si incontrano a causa del proprio orientamento sessuale possono essere molto differenti in base alla geografia. Con il passare del tempo e l’accumularsi delle lotte, se ci sono nazioni dove purtroppo vige ancora la pena di morte o si rischia il carcere, in altre si è giunti al pieno riconoscimento dei nostri diritti civili e al matrimonio egualitario con adozione.
È innegabile che l’immaginario statunitense abbia alimentato per decenni la coscienza e le azioni pubbliche della militanza politica e delle comunità LGBT di buona parte del mondo, ma in Giappone è stato grazie alla fondazione di un periodico dal titolo Barazoku, la tribù delle rose, che si gettarono le basi per l’affermazione di una coscienza identitaria specifica e destinata a diffondersi sul territorio nazionale. Non fu un’azione politica in controtendenza quanto un contributo originale e autonomo, poco studiato e conosciuto, soprattutto da noi.
Barazoku fu creato agli inizi degli anni ’70 letteralmente dal nulla da Itoh Bungaku, un piccolo editore di Tokyo e uomo eterosessuale privo di qualsiasi pregiudizio nei nostri confronti. Era pervaso da un autentico spirito di solidarietà umana, ma era anche dotato di un fiuto commerciale lungimirante. I suoi intenti erano nobili e la sua devozione alla causa fu assolutamente strabiliante.
La genesi, l’evoluzione e le influenze di questa rivista gay basata su valori storici, sociali e culturali radicalmente differenti rispetto a Stati Uniti ed Europa, sono superbamente raccontate in TRENT’ANNI DI BARAZOKU: Il ruolo della rivista nella formazione di una comunità omosessuale in Giappone di Loris Usai, libro prima autoprodotto in vendita solo su Amazon e adesso pubblicato da Asterisco Edizioni (pp. 285, 18 euro).
Il testo è il frutto della rielaborazione delle ricerche effettuate dall’autore in Giappone durante gli anni universitari, servendosi quasi esclusivamente di fonti in lingua originale, e attualmente è l’unico lavoro esistente in lingua italiana su questo specifico tema.
Se non si affrontano studi molto specifici è alquanto complesso penetrare a fondo nelle sottigliezze dell’esperienza giapponese sull’esistenza umana, e questo discorso è sicuramente valido anche per la storia dell’omosessualità nel Sol Levante. Loris però riesce in maniera dettagliata e discorsiva a permettere a chiunque di seguire il suo approfondito studio, fornendo un contributo prezioso alla comprensione e divulgazione della nostra storia in particolare e agli studi accademici di nipponistica in generale.
È possibile affermare che questo percorso autoctono iniziò nell’ombra, ma solo sotto alcuni aspetti. Barazoku, infatti, è stata “la prima rivista rivolta esclusivamente a un pubblico omosessuale, la cui distribuzione non si limitava alla spedizione postale previa sottoscrizione di un abbonamento come altrove nel mondo, bensì era affidata al commercio su scala nazionale presso regolari librerie e negozi specializzati”. In questo modo raggiungeva anche le persone che vivevano nelle province più periferiche dell’arcipelago, che dovevano però riuscire ad affrontare la “vergogna” dell’acquisto.
La sua scrittura coinvolge nella lettura con sapienza e un oceano di dettagli accompagnati da preziose e rare immagini, facendo vivere la storia completa della “tribù delle rose” fino all’ultimo dei 400 numeri pubblicati come se la vedessimo in un film documentario. Dalle difficoltà (anche con la polizia) al successo; dallo spezzamento del senso d’isolamento vissuto dalle persone omosessuali alla creazione di una rete sociale con sensi e significati condivisi; dallo smistamento dell’ingente corrispondenza che arrivava in redazione alla gestione di un servizio di aiuto in stile “telefono amico gay”; dall’apertura del Matsuri, un locale a Tokyo pensato apposta per i lettori della rivista, al coraggio di parlare per primo di AIDS in Giappone e dell’emergenza sanitaria, fino a tutte le conseguenze causate dall’arrivo di internet. Abbiamo posto alcune domande all’autore.
Per prima cosa da dove trae origine l’immagine della rosa come equivalente verbale velato di “maschio omosessuale”, un po’ come l’espressione “amico di Dorothy” dal film Il mago di Oz per gli Stati Uniti?
L’associazione tra i due concetti di “rosa” e “omosessualità” non nasce in Giappone, bensì nell’antica Grecia, in cui la leggenda dice fosse abitudine per gli amanti uomini scambiarsi promesse d’amore sotto i roseti, o anche solo donarsi l’uno l’altro delle rose rosse. Questa equivalenza è pressoché sparita nelle moderne civiltà occidentali, ma al contrario si è andata consolidando in Giappone proprio tramite la riscoperta di questi antichi miti e leggende a partire dagli anni ‘70.
La popolarità (seppur di nicchia) della rivista Barazoku ovviamente contribuirà a consacrare questa potente associazione di concetti, insieme ad almeno altre due opere di ambiti artistici diversi che è doveroso citare in questa sede: il film di Toshio Matsumoto del 1969 Bara no sooretsu, il corteo funebre delle rose, e il manga Berusayu no bara, le rose di Versailles del 1972-73, meglio conosciuto in Italia con il titolo di Lady Oscar. Tuttavia l’associazione di queste due immagini non era ovvia per tutti, prese piede in Giappone come un cosiddetto “linguaggio in codice”, tant’è che, nelle librerie, capitava che la rivista Barazoku fosse accidentalmente smistata tra gli scaffali del reparto di giardinaggio.
Infine posso aggiungere come nota personale, che per i giovani omosessuali giapponesi di ultima generazione, i quali sicuramente non hanno fatto in tempo a leggere la rivista e in molti casi non ne hanno neanche mai sentirne parlare, spesse volte la metafora non viene colta.
Le rivolte di Stonewall in realtà non furono l’inizio delle nostre lotte politiche, bensì cambiarono la direzione di dinamiche preesistenti. Si può dire lo stesso di Barazoku?
La notizia delle rivolte di Stonewall sicuramente echeggiò anche in Giappone. Nell’immediato un fatto di cronaca del genere non avrebbe potuto trovare un riscontro chissà di quale portata all’interno di una società tradizionalista e conservatrice come quella giapponese, ma sicuramente risuonava con il fermento generale in atto a livello globale. Nello stesso anno, il 1969, esce in Giappone il film di Toshio Matsumoto, e due anni dopo viene fondata Barazoku. L’anno prima, nel 1970, il futuro caporedattore della rivista pubblica il suo primo libro dedicato alle tecniche di masturbazione tra uomini.
Gli omosessuali in Giappone erano schiacciati da un tipo di repressione che era culturale più che fisica, non erano vittime di un’efferata discriminazione politica, non erano stati messi alla gogna dalle istituzioni religiose, e non erano vittime di violenza fisica da parte dei cittadini omofobi. Non avevano ragioni particolarmente “urgenti” per ribellarsi e rivendicare il diritto a un’esistenza degna di ogni essere umano. Il tema della rivendicazione dei diritti è ciò che, infatti, distanzia maggiormente il Giappone dalle società occidentali: tuttora, in Giappone, le battaglie per i diritti sono generalmente poco partecipate o incisive.
In sostanza credo di poter affermare che Stonewall, insieme a tutta un’altra serie di eventi concomitanti alla fine degli anni ‘60 (tra cui anche il suicidio rituale del celebre scrittore Yukio Mishima dopo l’occupazione del Ministero della Difesa nel 1970) ha contribuito ad accendere la miccia e innescare il processo che, tramite la nascita di Barazoku, avrebbe condotto per mano la nascente comunità omosessuale giapponese lungo un percorso di formazione a se stante, che fosse adatto ai modi peculiari di un contesto culturale esclusivo, sommesso, guardingo e gelosamente privato.
Dai tempi di Barazoku molto si è evoluto anche in Giappone. Per esempio ci sono cortei dei gay pride in varie città, si parla pubblicamente di turismo LGBT, Tagame Gengoroh ha pubblicato un manga dal titolo Il marito di mio fratello talmente di successo da diventare una serie TV trasmessa dall’emittente nazionale NHK. Cosa ne pensi tu che vivi lì da anni oramai?
Vivo in Giappone, a Tokyo nello specifico, da più di dieci anni ormai e ho visto un graduale cambiamento in meglio negli anni. Se ripenso ai miei inizi qui, ricordo una conversazione con un mio amico giapponese in uno dei locali più celebri del quartiere di Shinjuku Nichome, la Gay Town di Tokyo. Mi disse che non era particolarmente entusiasta della presenza di eterosessuali nei locali gay, “Vengono a vederci, come fossimo un’attrazione”. Si sentiva come il panda dello zoo di Ueno. Io gli risposi che non ero d’accordo, che la presenza degli eterosessuali nei locali gay avrebbe favorito l’incontro, lo scambio e la comprensione delle diversità in nome di una società più inclusiva per tutti.
Il paradosso è che negli anni lui ha cambiato idea in merito e ora sia d’accordo con me, e io, dal canto mio, negli anni ho compreso il senso del suo disagio: la società giapponese tende a schiacciarti, a livellarti, a incastrarti in determinati calchi di genere a cui tendenzialmente la gente si presta (nel pubblico), e non resta che il privato come unica valvola di sfogo. Se anche in quell’ambiente, considerato una specie di porto sicuro, una zona demilitarizzata esclusiva dove liberare il proprio “io”, si è costretti a recitare una parte per timore degli “occhi della gente”, è ovvio che non si facciano i salti di gioia.
Ma le nuove generazioni stanno cambiando, si stanno avvicinando sempre più al modello occidentale per effetto della globalizzazione. Il Giappone, in costante oscillazione tra gli estremi del binomio culturale Giappone-Occidente, vive una profonda dicotomia tra innovazione dei modelli e attaccamento alla tradizione. Nel mondo LGBTQ, chi frequenta certi locali della vita notturna, quelli ampiamente popolati anche dagli stranieri residenti, è tendenzialmente più aperto a condividere la propria identità sessuale e culturale. Mentre chi preferisce mantenere un discreto profilo low key, rimanere in un tiepido limbo di stabile tranquillità troverà riparo nei locali di stampo tradizionale, dove generalmente, e per tutta una serie di ragioni, hanno accesso solo i giapponesi o gli stranieri che abbiano una certa padronanza della lingua e della cultura giapponese.
L’aspetto pubblico, tuttavia, ha fatto sensibili passi da gigante. Il gay pride della capitale, il “Tokyo Rainbow Pride”, si tiene tutti gli anni tra aprile e maggio a Tokyo. Negli anni ho visto questa manifestazione crescere in maniera esponenziale e aumentare di visibilità e partecipazione di anno in anno. Non solo aumentano le aziende straniere e locali che sponsorizzano l’evento, ma anche i cittadini stessi che sfilano nel corteo, o che si affollano ai lati della strada per supportare la manifestazione, hanno oggi il volto di giovani ragazzi e ragazze, uomini e donne mature, eterosessuali e omosessuali, single, coppie, famiglie con bambini, anziani, stranieri, giapponesi. Sono stati effettuati già due sondaggi a livello nazionale per studiare l’orientamento dell’opinione pubblica sul tema del matrimonio tra persone dello stesso sesso. Nel 2015 poco più del 50% della popolazione (20-70 anni di età) si era detto d’accordo, e nel 2019 la percentuale è schizzata quasi al 70%.
Io sono convinto che la coscienza del popolo giapponese sia assolutamente matura per accogliere questo tipo di cambiamenti nella società. A non essere ancora pronta è la lobby di politici al governo, spesso e volentieri inadeguata e ancorata a ideali anacronistici.