Il/la regista di un cortometraggio iraniano, passato in rassegna quest’anno per tre dei più importanti festival di cinema LGBT italiani, sceglie una prospettiva radicalmente intima e autobiografica per denunciare temi quali la violenza sessuale, il potere e i tabù creati dal sistema politico eteropatriarcale, inserendosi anche nel dibattito sull’identità di genere.
In un’epoca dove la discussione sull’identità e l’espressione di genere è molto forte e polarizzante, non mi è facile come maschio biologico gay e gender solid prendere una posizione o esprimere una preferenza specifica sul tema, perché mi sembra di intervenire a sproposito o di muovermi come un elefante in una cristalleria. Posso comunque affermare che non amo il termine cisgender, e che esistendo la fluidità di genere ci deve essere per forza anche la solidità di genere, dove mi pongo senza se e senza ma.
Quando Amina Maher, che si definisce una donna queer, mi ha contattato per sapere se ero disponibile a scrivere del suo cortometraggio Letter to my mother, lettera a mia madre, che era stato selezionato dal Festival MIX Milano di Cinema Gaylesbico e Queer Culture, le risposi che non lo avevo visto perché avevo optato per altre scelte, essendo la programmazione online troppo fitta, per fortuna, ma sfortunatamente il tempo a disposizione per vedere tutto non è mai abbastanza per quanto uno ci metta buona volontà.
Rimasi però incuriosito dalla richiesta e dopo aver guardato il suo sito internet e il trailer, le chiesi la possibilità di visionare il lavoro completo, firmato al maschile come Amin Maher, che mi ha lasciato decisamente spiazzato.
Amin Maher è nato nel 1992 a Teheran e all’età di dieci anni è apparso come attore accanto a sua madre Mania Akbari in Dieci di Abbas Kiarostami, pellicola in concorso al Festival di Cannes 2002 e considerata un capolavoro dalla critica internazionale.
Il film, tutto girato con una videocamera digitale, è diviso in dieci scene, ognuna delle quali descrive una conversazione tra un’autista donna mentre guida per Teheran e una varietà di passeggeri, tra cui il suo giovane figlio, sua sorella, una sposa, una prostituta e una donna sulla via della preghiera. Una delle trame principali è il divorzio della tassista dal marito e il conflitto che questo causa tra madre e figlio.
Anche Mania Akbari, come Kiarostami, diventerà una regista di fama internazionale, e Amin ne seguirà le sue attività cinematografiche come attore, montatore e assistente alla regia. Nel 2010 ha iniziato a studiare all’Università di Teheran prima di essere arrestato per le sue attività politiche. Successivamente ha lasciato l’Iran per studiare regia alla Limkokwing University in Malesia e ha diretto diversi cortometraggi.
Letter to my mother è un lavoro del 2019 che sta ancora girando in tutto il mondo, ricevendo numerosi riconoscimenti e premi. In Italia oltre che a Milano è stato proiettato a Torino al Lovers Film Festival, a Palermo al Sicilia Queer Film Festival e a Bari al Bari International Gender Film Festival.
Questa “epistola cinematografica” nasce dalla sua esperienza di abusi sessuali infantili ricevuti da un membro della famiglia per un periodo di quattro anni. Trasformando il trauma in un’operazione artistica che può essere mostrata, è una denuncia in forma visiva delle conseguenze psicologiche degli stupri subiti. Il peso del segreto e il non essersi sentito protetto si mescolano all’esplorazione sulla confusione di genere, la sessualità, il senso di colpa, il suicidio e la repressione in relazione alla violenza e all’identità.
Ci vuole molto coraggio per rompere i tabù sociali che causano il nostro silenziamento su determinati temi. Ci vuole molta forza per spingere in avanti i confini sia collettivi sia personali in maniera pubblica. Amina lo fa con l’arte e con il corpo e se il prezzo da pagare è alto, come spiega nell’intervista rilasciata al canale televisivo satellitare Iran International, il silenzio però aiuta soltanto ad aumentare i casi di violenza e il potere degli aggressori.
Se la questione è universale, in Iran a causa dei valori morali locali presenti che le strutture politiche fanno rispettare, dell’ombra della religione islamica, della paura e della vergogna, la sensibilità sull’argomento è amplificata. Quando, inoltre, si tratta di bambini e dei loro diritti è ancora più complesso parlarne. Farlo in TV vestita da donna, truccata ma con il segno della barba sul viso e il petto villoso in vista, infine, è ancora decisamente inusuale.
Questa è la traduzione di quanto Amina mi scrisse quando mi contattò la prima volta per e-mail. “In qualità di donna trans regista, era importante per me apparire come sono, mettere in dubbio l’eteronormatività, questa volta per gli spettatori iraniani che soffrono di una dittatura religiosa che non ha rispetto per i diritti umani. Da allora la mia identità è stata costantemente attaccata. Ho bisogno di lottare per la verità e per difendere chi sono. Per me il prezzo fu estremamente alto, ma l’ho fatto lo stesso perché credo che se vogliamo un vero cambiamento, dobbiamo seriamente sentirci responsabili e mettere in discussione i valori morali superati. Ci sono più persone che hanno bisogno di sostegno per rompere i loro silenzi, soprattutto ora che il movimento “Me Too” sta avvenendo in Iran. Sempre più persone stanno rompendo i loro silenzi. Sento la responsabilità di lottare per i diritti umani, compresi i diritti delle donne e dei bambini e contro il patriarcato e l’eteronormatività. Vorrei sapere se sei interessato ad avere una conversazione con me sugli argomenti sopra menzionati. Fammi sapere se vuoi saperne di più o se hai bisogno di maggiori informazioni, ecc.”
Nel cortometraggio vediamo Amin spogliarsi, entrare in una vasca da bagno e iniziare a radersi completamente. È un uomo mediorientale, quindi naturalmente irsuto ovunque. La sua voce fuori campo inizia a parlare alla madre: “Tuo cognato, tra l’età di 10 e 14 anni, mi ha stuprato più volte”.
Al suo psicoterapeuta collegato in video racconta dell’inizio dell’abuso e lui inizia a spiegargli i meccanismi della pedofilia, per cui una ex vittima diventa persecutore per modificare la memoria e alleviare la pena. La scena cambia e una donna occidentale inizia a truccare il volto di Amin, seguono immagini oniriche ed estratti dal film Dieci con lui bambino. Infine Amin si veste da donna e dopo iniziano i titoli di coda.
Qui di seguito lo scambio di pensieri che ho avuto con Amina parlando di differenze culturali e geografiche, influenze religiose, modernità e secolarizzazione.
Non posso confrontare “il tema dello stupro e dei tabù sociali in relazione al potere politico e al patriarcato” in Iran e in Italia, perché la mia linea editoriale è sulle questioni LGBT e la pedofilia non è l’omosessualità. L’attuale Papa, inoltre, è molto impegnato nello smascherare come la chiesa cattolica ha nascosto nel tempo tali crimini.
Per me il genere è una performance improvvisata. Sono molto radicale quando si tratta di chiesa. Mi sono sempre identificato come queer. Adoro il termine donna queer.
Ovviamente la pedofilia non è omosessualità! Le persone LGBT potrebbero essere violentate di più per come la mascolinità eteronormativa con il suo comportamento dominante definisce e rimane se stessa come origine e norma. A parte questo, per me non c’è connessione tra lo stupro e la mia identità queer. E io sono radicale quando si tratta di qualsiasi tipo di religione.
In Iran l’omosessualità è punita con la morte, ma l’intervento chirurgico per la riassegnazione di genere è gratuito. L’Italia non ha una legge contro l’omosessualità dalla fine del XIX secolo (1889). Adesso vivi in Germania…
Sono consapevole della situazione politica in Iran, dove l’identità delle persone come me è totalmente negata. Questa è la domanda: cosa succederebbe se una donna queer come me volesse vivere lì così come lei è? Non ci sarà spazio per lei. Io non voglio e non ho bisogno di sottopormi a un intervento chirurgico e dico sempre che rimango una donna con i peli sul mio petto, le tette e il pene. Lo adoro! E questo è esattamente quello che sto cercando di portare in Iran: posso essere una donna con i peli sul mio petto. Qualsiasi tipo di religione protegge la mascolinità eteronormativa in cui il pedofilo è sostenuto e protetto e la violenza sessuale si ripete nella stessa forma e con lo stesso tipo di struttura. E ovviamente questa è in parte una questione di potere. Come ultima cosa, il mio nome è Amina. Pensavo di non cambiare la mia identità, ma piuttosto di rivelarla. Beh, è solo da pochi mesi che mi presento in pubblico come Amina.
Penso che tu sappia o possa capire che non tutti accetterebbero questa definizione di “donna”, ma la domanda senza risposta personale che pongo è: “Cos’è una ‘donna’ nel 2020?”
Sì, ho capito cosa hai scritto. Non tutti accetteranno e capiranno il mio tipo di donna. Quindi la queerness è in qualche modo il mio rifugio che si è rivelato più eccitante e interessante della vita normale che avevo vissuto. Come hai detto, viviamo nel 2020! E fortunatamente ci sono state lotte per i diritti queer e sono felice che come donna queer, almeno io posso alzare la mia voce. Spero che i confini saranno spinti di più.