Una madre con la M maiuscola, il cui universo si ripete identico e immutabile, è messa a dura prova dalla modernità dei figli che in nulla rispondono ai suoi ideali. Le tappe per la crescita personale e l’indipendenza del protagonista gay di questo divertente libro diventano battaglie nelle quali ognuno si può riconoscere e trarre utili lezioni di vita.
Una madre un po’ invadente e onnipresente. Una madre incontentabile e incontenibile, pessimista e vittimista. Una madre un po’ apprensiva e anche oppressiva, infelice di sua spontanea volontà, perché secondo l’autore è una scienza essere infelici, persino una forma di eleganza in quanto la felicità di solito è a scapito di qualcun altro e magari la si ostenta. Una madre che conferma una a una tutte le teorie di Freud sulle madri (e lui, con le mamme, non ci andava mica tanto per il sottile). Una madre un po’ egocentrica…
Non è una lista di possibili madri con problemi caratteriali, si tratta di una sola madre, Manon (il nome se l’è scelto lei, forse perché si sente proprio come la pucciniana e di conseguenza teatrale signorina Lescaut) d è la coprotagonista del nuovo romanzo di Alberto Milazzo La morale del centrino (ed. SEM).
Manon è una mamma siciliana di Palermo (viale Ortigia 72, se proprio volete andare a conoscerla di persona), dalla quale il figlio, di cui non sapremo mai il nome ma che incarna tutte le reali problematiche di chi ha una genitrice così debordante, tenta/prova/arrischia un percorso di emancipazione. O, perlomeno, si cimenta in quella che potrebbe sembrare la bozza di un manuale di sopravvivenza che può tornare utile a tutti in qualsiasi momento, non si sai mai. Ci riuscirà? Questi i suoi passi, prendete nota.
Prima si permette di non seguire i dettami di mammà che l’avrebbe tanto voluto dottore. Infatti si è laureato in filosofia e, orrore, per vivere fa il copywriter. Poi si trasferisce – ma in realtà è una vera e propria fuga, altroché – a (orrore!) Milano, una città guarda caso strategicamente lontana da Palermo, facendo addirittura (orrore!) prove di ulteriore allontanamento con qualche timida capatina all’estero…
Aggiungiamo anche che il figlio – mediano di tre – oltre a essere l’io narrante è pure (orrore!) gay. Com’è facile immaginare l’orientamento sessuale così poco ortodosso pare proprio cozzare contro i principi cattolici, assolutistici e manichei di Manon, tant’è vero che lei glissa elegantemente sulla di lui omosessualità evitando, apparentemente, ogni tipo di scambio su questa spinosa questione. Se poi lui vuole per giunta sposarsi, ovviamente con un uomo che non è nemmeno (orrore!) siciliano, non ci lamentiamo se il loro già fragile rapporto subisce melodrammatici cedimenti e derive.
Certo, non è che il fratello e la sorella eterosessuali riescano a gestire la madre tanto meglio di lui, bisogna dirlo, perché Manon non è per nulla una donna malleabile, anzi ogni tanto s’impunta trincerandosi dietro una difesa strenua di ciò che lei considera “giusto” e non c’è modo di farle cambiare idea.
Alberto Milazzo ha il pregio di riuscire a rendere spumeggiante e divertente un personaggio che, con penna maldestra, avrebbe reso semplicemente insopportabile o grottesco. La esplora in tutte le sue manie (volete entrare in una stanza in cui lei ha appena fatto le pulizie, con il rischio di sporcare di nuovo? Occorre aspettare. Quanto? Per l’eternità!).
Ci fa conoscere i suoi tic, i vezzi (volete portare Manon al ristorante? Non fatelo!) e gli atteggiamenti estremi. Non ci tiene nascoste le sue idiosincrasie (se siete un cameriere e lavorate in una pizzeria sperate che non vi ordini mai una Quattro stagioni, ne andrebbe non dico della vostra vita ma del vostro equilibrio mentale sì) e piccinerie varie (voi lavereste in un lavandino in cui di solito pulite le scope luride i piatti in cui ha appena mangiato il vostro futuro genero, così in segno di massimo spregio nei confronti dell’ospite? Manon per esempio, lo fa).
L’autore descrive le dinamiche tra i due protagonisti principali utilizzando dialoghi inseriti come battute di una pièce teatrale, e prende in considerazione oggetti inanimati quali i centrini, i merletti, la vetrinetta con tutti i ninnoli pacchiani della protagonista trasformandoli in metafore e simboli della filosofia di vita, spicciola ma pungente e pratica di Manon, ovvero la morale del titolo.
Troviamo anche qualche spruzzata di umorismo yiddish e strizzatine d’occhio alle atmosfere delle opere di Woody Allen. In queste ultime c’è Manhattan, qui, nel romanzo di Milazzo, Palermo e un figlio vittima di una madre con una personalità oversize, che si rivolge a uno psicoterapeuta che di cognome fa Del Bosco, che è un po’ come tradurre in italiano la parola Woody.
A scanso di equivoci riporto le prime righe del libro, una sorta di versione 2.0 dell’incipit di Anna Karenina: “Per la signora Manon, mia madre, l’unica felicità possibile è la media delle nostre infelicità. La felicità individuale è un delitto.”
Manon è un’eroina con la quale gli altri personaggi del tuo romanzo fanno veramente fatica a relazionarsi. Vuoi dirci qualcosa a sua “discolpa”? Tra l’altro a quali o a quante madri ti sei ispirato per crearla?
Ci sono due pregiudizi in questo libro che ricadono sulla coppia protagonista, la madre e il figlio, e in qualche modo i pregiudizi stanno proprio nella definizione di madre e in quella di figlio. Il figlio decide di fare coming out, e come spesso accade deve quindi smontare il pregiudizio sull’essere figli. Uscire dall’orbita delle filialità ed entrare in quella di un essere umano con i suoi caratteri specifici. D’altronde la madre, credo ogni madre, vive su di sé il pregiudizio della maternità. La fatica è quella di restare madre ma anche di essere una donna, una persona specifica, con le sue ruvidezze, le sue asprezze, la sua unicità. In questo libro si procede dal generale al particolare, dall’umorismo come strumento di facciata a un sorriso sfumato che nasce dalla consapevolezza di sé e dell’altro.
Ho vissuto direttamente e indirettamente molti coming out. È una materia molto delicata. Ci sono storie finite bene e altre finite anche molto male. Ma quello che le accomuna tutte è l’intensità del racconto. Ho visto omosessuali adulti, fieri, con le lacrime agli occhi nell’evocare alla memoria il momento del loro coming out in famiglia. La radice della genitorialità è in parte anche la radice della nostra identità. Un tema che mi ha sempre affascinato e che ho cercato di trattare con onestà ma anche con pacatezza. Spero che sia un libro “di servizio”, che possano leggerlo genitori e figli, che aiuti il dialogo intergenerazionale, che aiuti i figli che fanno fatica a dirlo in famiglia, ma anche i genitori che hanno pochi strumenti con cui gestire il tema.
Sappiamo che sei decisamente poliedrico: scrivi testi teatrali, suoni musica jazz, sei un traduttore (per esempio Queer City di Peter Ackroyd, sempre per le edizioni SEM). Hai anche portato in scena uno spettacolo sui compositori ebrei del ‘900. Una cultura, quella ebraica, che sembra ritornare anche in questo tuo libro dove la mamma siciliana ha più di un punto in comune con le mamme ebree che abbiamo conosciuto per esempio nei film di Woody Allen. Madri onnipresenti, attaccate alle tradizioni in modo anacronistico, con figli che citano Freud e che prima o poi finiscono dallo psicanalista. Ce ne puoi parlare?
Sì, da sempre mi occupo di ebraismo, anche a teatro. L’umorismo ebraico è una risorsa per l’umanità, una delle più grandi eredità e forse la meno riconosciuta che la millenaria cultura ebraica consegna alla storia. Le madri del Mediterraneo però devono avere qualcosa in comune se nei racconti dei loro figli si somigliano un po’ tutte. Manon, la mia protagonista, è un incrocio fra le mamme siciliane che ho conosciuto e la leggendaria yiddishe mame che troneggia nel barzellettario ebraico che porto in scena da anni ormai. Una sintesi che mi appartiene, perché in modi diversi da tanto cerco in me un equilibrio impossibile ma per questo ancora più necessario fra mondi diversi ma che sento familiari e affini.
Il tuo primo romanzo Uomini e insetti (Mondadori) è del 2015. Anche lì si parlava, tra i vari temi, di omosessualità, di madri (là mancanti, qui più che presenti), di ricerca di se stessi e del proprio passato, ma i due libri, per toni e sviluppo, non potrebbero essere più diversi. A cosa dobbiamo questo drastico cambio di genere letterario e di approccio alla scrittura?
Sento il primato della storia sulla lingua. Sono un narratore e questo per me vuol dire poter scegliere la storia da raccontare e vestirla del linguaggio più adatto per darle struttura, compiutezza.
In Uomini e insetti ho raccontato un mondo orizzontale di relazioni sessuali e amicali, dove i protagonisti condividono più o meno tutti la stessa fascia d’età. Mi interessava indagare i confini del linguaggio amoroso. Il protagonista si rende conto che l’orizzonte in cui inserisce le sue storie sentimentali è spesso quello di un’esausta narrativa tardo romantica. D’altronde si fa fatica a scardinare quelle coordinate e reinventare nuovi paradigmi per la propria affettività. La scommessa interna al libro era questa. In La morale del centrino torna il bisogno di scardinare l’orizzonte degli affetti, la grammatica delle relazioni, questa volta in “verticale”, nel rapporto genitori-figli.
Uso linguaggi differenti perché ho bisogno di libertà espressiva. In Queer City per esempio ho usato una lingua scientifica. Nei miei racconti brevi, invece, uso spesso una struttura scabra, paratattica, cercando la collisione delle frasi piuttosto che un modo per farle suonare armoniche fra loro, come nei romanzi.
In teatro poi posso esercitare il discorso diretto. Scrivo per il teatro da oltre vent’anni e i generi letterari ormai cominciano a scivolare l’uno nell’altro senza quasi che me ne accorga. Per fortuna se ne accorgono altri: sono felice di poter annunciare che La morale del centrino debutterà al Teatro Libero di Palermo la prossima stagione per la regia di Luca Mazzone.
Hai lanciato l’hashtag #lodiononpaga, dove in questo caso per odio intendi quello nei confronti della comunità LGBT. Di cosa si tratta?
#lodiononpaga è un modo per fermare la violenza contro l’altro, sia esso la comunità LGBT o le donne, o lo “straniero”. La mia idea è di isolare economicamente gli odiatori professionisti, cioè quelle persone che odiano pubblicamente, facendo ricorso ai social media, quelli che diffondono il proprio odio chiedendo like, chiedendo che il loro odio sia condiviso. Bisogna segnalare queste persone ai loro datori di lavoro, collaboratori, società con le quali sono a vario titolo affiliati e, usando #lodiononpaga, chiedere pubblicamente se, visto che li pagano, ne sostengono anche le idee. #lodiononpaga vuol dire che se stacchiamo la spina economica agli haters facciamo un gesto concreto, perché isoliamo l’odio, e gli togliamo l’ossigeno.
Ne ho avuto la riprova con alcuni squallidi fatti di cronaca recente. Ho chiesto personalmente e pubblicamente a marchi di moda e non solo se si riconoscevano nelle frasi di odio di una loro collaboratrice che s’era distinta per una violenza verbale sui social francamente inaudita e ingiustificabile contro il pride di Milano. Con l’hashtag #lodiononpaga le aziende hanno preso le distanze e hanno chiuso i contratti con questa persona. Risultato, la piattaforma di visibilità che questa persona aveva s’è sgonfiata, la violenza che esprimeva pubblicamente perché si sentiva supportata dai followers s’è trasformata in un boomerang.
Bisogna comprendere che odiare e incitare all’odio ha delle conseguenze non solo ideologiche ma anche pratiche. Non puoi odiare e far parte della società civile, nonostante il clima politico contemporaneo sembri dire il contrario. Ma anche in quel caso, chiudendo i rubinetti economici, anche la politica dell’odio perderebbe consensi.
Conoscete un odiatore professionista? Usate l’hashtag #lodiononpaga e chiedete a chi lo ha in busta paga se lo sostiene anche ideologicamente. La speranza è che, come è già accaduto, l’hater rimanga isolato. Magari la prossima volta che ha un colpo di calore ci ripensa, al posto che incitare all’omicidio, allo stupro, all’uso delle armi, o a invocare ideologie naziste e fasciste.