Una nuova edizione filologica permette di riscoprire La Traviata Norma, lo spettacolo considerato in maniera unanime come momento fondativo del teatro gay in Italia. Un’opera militante dove gli omosessuali ribaltano il gioco delle parti, e sono gli eterosessuali l’oggetto di derisione o compassione.

 

Se eresia significa scegliere, dal verbo greco αἱρέω (hairèō), l’atto di scegliere, di prendere una decisione e di schierarsi, allora il copione di La Traviata Norma ovvero: vaffanculo… ebbene sì! del collettivo teatrale “Nostra Signora dei Fiori” (citazione dell’omonimo romanzo di Jean Genet, l’autore di Querelle de Brest, N.d.R.), può rientrare a pieno titolo nella collana Eresia di Asterisco Edizioni. Una collezione, che raccoglie testi e documenti del movimento LGBT e femminista che testimoniano “la scelta di chi ha voluto schierarsi, con le idee, con le parole e con i corpi da una parte precisa della storia, di chi ha aperto brecce, inventato parole per nominare ciò che non si poteva pronunciare”.

Era il 9 marzo 1976 quando per la prima volta un gruppo di omosessuali, anzi di checche, mise in scena La Traviata Norma presso il CTH di Milano, dopo pochi giorni di elaborazione e di prove. Nel febbraio dell’anno successivo la casa editrice L’Erba Voglio ne avrebbe pubblicato il testo in un’edizione arricchita di fotografie e testimonianze dirette di chi aveva collaborato, visto o partecipato allo spettacolo. Per la nuova edizione del libro, edita non a caso il 9 marzo di quest’anno, ho voluto indagare nell’introduzione cosa lo spettacolo rappresentò per quella generazione di omosessuali e militanti, e perché riuscì a produrre un’eco capace di risuonare nella memoria collettiva dell’attivismo LGBT italiano e non solo per decenni fino a oggi.

In Italia la fondazione del FUORI (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano) nel 1971 a Torino e la contestazione che organizzarono a Sanremo il 5 aprile 1972 contro il congresso del Centro Italiano di Sessuologia segnano il punto d’inizio per i movimenti per la liberazione omosessuale nel nostro paese.

La Traviata Norma fu a tutti gli effetti un atto eretico sostanzialmente per tre motivi: primo, perché formalizzò quella rottura politica che all’interno del FUORI già si era prodotta negli ultimi anni, soprattutto a Milano intorno alle figure intellettuali di Corrado Levi e Mario Mieli.

Il collettivo teatrale Nostra Signora dei Fiori, infatti, rappresentava uno dei numerosi collettivi interni ai neonati C.O.M. Collettivi Omosessuali Milanesi, e in sé conteneva uno spirito politico rivitalizzato, ormai stufo della noia dei congressi del FUORI e lontano dalla politica istituzionale degli alleati del suo fondatore Angelo Pezzana nel Partito Radicale.

Con quello spettacolo s’inaugurava a Milano un attivismo politicamente autonomo, radicale nei contenuti e nei linguaggi, antisistemico e anticapitalista, l’attivismo appunto del “vaffanculo… ebbene sì!”[1]. Uno spirito che dai gruppi dell’autocoscienza omosessuale raccolse soprattutto giovani studenti gay e militanti di organizzazioni politiche dell’estrema sinistra che lottavano con la duplice necessità di liberazione: quella di classe e quella sessuale In questo senso allora eretici nei confronti della politica istituzionale, vista come elemento di addomesticamento della potenza rivoluzionaria della liberazione sessuale, come strumento mediocre interno a quel sistema che non voleva essere cambiato ma totalmente distrutto. Basta leggere le prime pagine del testo per comprendere i riferimenti della visione politica del gruppo circa il ruolo della sessualità all’interno del conflitto di classe.

Un secondo motivo della sua natura eretica è nei confronti della produzione teatrale e artistica fin lì prodotta. La Traviata Norma, infatti, fu riconosciuta già negli anni Ottanta come il primo spettacolo della stagione del “teatro frocio” italiano.

Come descritto da Antonio Pizzo in Il teatro gay in Italia. Testi e documenti, negli anni Settanta vigeva un clima in cui il cinema e il teatro stavano proponendo modelli alternativi sull’omosessualità e la transessualità rispetto a quelli catto-clericali e machisti degli anni Cinquanta e Sessanta. Basta pensare alla produzione di Pier Paolo Pasolini, al The Rocky Horror Picture Show (1975), all’arrivo in televisione delle Sorelle Bandiera o alle raffinate rivisitazioni letterarie di Paolo Poli.

La Traviata Norma non fu la prima esibizione con personaggi omosessuali, ma sicuramente fu quella che diede il via alla breve stagione del teatro gay in Italia, o come allora si usava dire “teatro frocio”. Franco Quadri recensendola sulle pagine teatrali di Panorama dell’8 giugno 1976 la definì “il primo spettacolo italiano di carattere dichiaratamente omosessuale”.

La rappresentazione ebbe un’evoluzione rapida e mutevole: fu preparata in pochi giorni collettivamente, sistematizzata e riadattata per le performance successive a Milano (teatro Il Quarto), a Firenze (cineclub La macchina del tempo) e a Roma (Teatro In Trastevere). Nell’introduzione della nuova edizione ho ricostruito tutta la sua evoluzione attraverso le testimonianze di chi lo spettacolo lo fece o lo vide, per raccogliere pezzi di una memoria politica collettiva della nostra cultura.

Per la prima volta attori non professionisti omosessuali rappresentavano sul palco se stessi in una commedia politica dove gli omosessuali giudicavano la Norma eterosessuale e, con un gioco pirandelliano di meta-teatro, colpivano l’omofobia e il sessismo delle platee presenti. Fu il primo spettacolo frocio dove gli interpreti omosessuali giocavano con un travestitismo diverso rispetto a quello eteronormato conosciuto. Ma fu anche quello spettacolo che in qualche modo ha posto alcune basi della performance pubblica come azione politica.

Il linguaggio, a volte molto forte, le canzoni, alcuni gradi classici dell’opera e della tradizione marxista comunista dissacrati e riformulati in ottica frocia, e le battute, queste quasi sempre soggette a improvvisazione rispetto al canovaccio, riuscivano a creare quella cornice dove diciassette checche si riprendevano la parola sul palco per scendere poi tra gli spettatori e scegliere i maschi con cui giocare e ammiccare sessualmente. Questi in sintesi furono alcuni degli elementi d’avanguardia che avrebbero rappresentato il paradigma di riferimento della produzione teatrale frocia successiva. A partire anche da questi dobbiamo la riflessione ampia che lo stesso Mario Mieli dedicò al teatro e alla sua funzione.

Come riporta nel 1979 la rivista teatrale Scena, la prima ad accorgersi e segnalare quella stagione ai suoi esordi, “Mieli sottolinea che ci si può dare al teatro per comunicare ciò che non è concesso dire altrimenti: ‘si tratta di fingere di servirsi della finzione teatrale per esprimersi sinceramente in pubblico’”[2], ribaltando così la regola del gioco.

“Non ha forse la verità comunque struttura di finzione?” Da qui parte la riflessione che Paola Mieli[3] costruisce nella sua postfazione presente nella nuova edizione del libro, con la quale fornisce elementi utili e necessari per la comprensione del pensiero del fratello Mario, che era venuto in contatto con le esperienze del teatro gay inglese in uno dei suoi primi viaggi a Londra, dalle quali sicuramente lui, e altri del gruppo, presero spunto per la messa in scena de La Traviata Norma.

Il terzo elemento eretico è “nel suo dato cronologico”. La pièce teatrale, infatti, contribuì in qualche modo a quel ponte politico che avrebbe portato al movimento del Settantasette, ed essendo “autenticamente di massa prodotto dopo il ’68”[4] fu capace di rielaborare la produzione teorica di quegli anni, coniugarla con la politica femminista del “privato è politico” e riproporla con linguaggi nuovi che sarebbero esplosi nel ’77, travolgendo le forme della politica della sinistra extraparlamentare e non solo.

Alcune canzoni presenti avrebbero avuto fortuna e seguito nelle feste della gioventù proletaria dei mesi successivi, altre sarebbero state riadattate come slogan nei cortei di massa. In generale però quel tipo di presa di parola omosessuale si sarebbe incrociata in maniera determinante con il movimento ampio degli studenti e delle studentesse, delle femministe e dei lavoratori e delle lavoratrici del ’77, sia nelle pratiche che nell’elaborazione teorica.

Il significato politico profondo de La Traviata Norma lo colse perfettamente Daniela Quarta, la prima docente universitaria di teatro che si dedicò al suo studio, che la definì come “la massima affermazione ideologica dell’emarginazione come status rivoluzionario in sé stesso”[5]. Ha avuto senso per me allora definire La Traviata Norma uno spettacolo di resistenza, un’esperienza in cui l’analisi del desiderio, che avveniva attraverso forme di autocoscienza e costruzioni di relazioni di amicizia, intime o sessuali, univa persone differenti tra loro per età, formazione politica e livello culturale.[6]

Nei contributi che seguivano il testo teatrale nell’edizione di L’Erba Voglio, riproposti integralmente nella nostra nuova edizione, si ritrovano numerose riflessioni circa il desiderio inteso non solo come pulsione erotico-sessuale ma come chiave di lettura quasi antropologica dell’esperienza dello spettacolo, necessaria per comprendere la natura e il posizionamento politico non più solo di un “io” privato che scrive, ma anche di un “noi”, del collettivo.

Abbiamo riprodotto il copione così com’è nell’originale, con alcuni interventi in nota per facilitarne la comprensione e la contestualizzazione di alcuni termini. Lo stesso è avvenuto per i contributi che lo seguono per i quali, in rari casi, si è scelto di eliminare i cognomi degli autori deceduti o che ci hanno espresso la volontà di tutelarne la privacy.

L’intervento maggiore è stato effettuato per l’apparato fotografico che arricchiva la prima edizione. Sappiamo che la maggior parte delle fotografie furono realizzate da Guia Sambonet, intima amica di Mario Mieli, mentre prima di lei documentarono lo spettacolo al CTH anche alcuni amici del collettivo, tra cui Paolo Zappaterra, fotografo attivo nel movimento. Al teatro Quarto di Milano, invece, fu consentito solo a Maria Mulas di fotografare la rappresentazione in corso, seduta al suo posto con la macchina fissa sul cavalletto.

Per non confliggere con la privacy di alcuni dei soggetti rappresentati abbiamo scelto come collettivo editoriale di non riproporle. Abbiamo però voluto arricchire l’edizione con un’appendice dove sono raccolti articoli di giornali e recensioni, la locandina di Roma e documenti vari, che speriamo possano aiutare il lettore e la lettrice di oggi a rivivere quello spazio, fisico e temporale, in cui dal palco o dal pubblico si faceva un vissuto di esperienza attraverso parole e racconti che da quel momento sarebbero riecheggiate nelle generazioni successive, consegnando al corpo la dignità di un’arma rivoluzionaria capace di lasciare ferite profonde.[7]

 

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[1] Massimo Prearo, La fabbrica dell’orgoglio. Una genealogia dei movimenti LGBT, Edizioni ETS, Pisa, 2015, p.49.

[2] “Fingere di fingere”, Dibattito sull’attore. Interventi di Laura Barbiani, Mario Mieli, Italo Spinelli, in Scena, giugno 1979, pp. 41-42.

[3] Paola Mieli ha già curato la riedizione di Feltrinelli del 2017 degli Elementi di critica omosessuale insieme a Gianni Rossi Barilli, e insieme a Massimo Prearo nel 2019 per l’editore Marsilio il volume La gaia critica. Politica e liberazione sessuale negli anni settanta. Scritti (1972-1983), scritti teorici e politici, articoli e interviste di Mario Mieli per la prima volta presentati in maniera organizzata e criticamente ragionata.

[4] Francesco Paolo Del Re, La performance totale di Maria M., in Dario Accolla e Andrea Contieri, a cura di, Mario Mieli trent’anni dopo, Circolo di cultura omosessuale Mario Mieli, Roma, 2013, p. 72.

[5] Ivi. p.8.

[6] Mauro Muscio, Introduzione alla nuova edizione, in La Traviata Norma ovvero: vaffanculo… ebbene sì!, Asterisco Edizioni, 2020, p. XXVIII.

[7] Ivi. p. XXXIII.