Dopo il successo al festival di Asti debutta a Roma La cerimonia del massaggio, un monologo tratto dall’omonimo romanzo di Alan Bennett adattato da Tobia Rossi e interpretato da Gianluca Ferrato che veste i panni di un sacerdote trasgressivo. Lo abbiamo intervistato per saperne di più.

foto di apertura di Neri Oddo

 

È di pochi giorni fa la notizia dello “scandalo” suscitato in una contrada di Ischia, quando si è diffusa la voce che il parroco intratteneva una storia con una signora sposata che si era liberata del marito cacciandolo via da casa. Come ben sappiamo, non tutte le relazioni dei sacerdoti (anche ai più alti livelli gerarchici…) sono di natura eterosessuale: senza andare a toccare i vergognosi abusi perpetrati a danno di fanciulli e ragazzine, ci sono anche quelle omosessuali.

Di una di queste ci racconta Alan Bennett in La cerimonia del massaggio (The Laying of Hands), romanzo breve tradotto e messo in scena anni fa in forma di monologo da Anna Marchesini. Scrittore e drammaturgo, Bennett, oggi novantenne, rimane una delle stelle più brillanti della letteratura inglese contemporanea. A tutt’oggi sono rivisitati e messi in scena alcuni suoi celebri testi, dalla Pazzia di re Giorgio a The History Boys e Il vizio dell’arte (questi ultimi due allestiti dal Teatro dell’Elfo) e The Lady in the Van (La signora nel furgone), interpretato prima a teatro e poi al cinema dalla grande Maggie Smith da poco scomparsa. Molti di loro hanno al centro vicende con personaggi omosessuali. Altrettanto famosi sono i suoi monologhi, soprattutto quelli della serie per la BBC Talking Heads, tra i quali ricordiamo Una patatina nello zucchero, Aspettando il telegramma e Un letto tra le lenticchie.

È all’interno di una chiesa nel quartiere londinese di Shoreditch, non lontano dalla City, che si svolge l’azione della Cerimonia del massaggio. Assistiamo alla funzione in memoria di Clive Dunlop, deceduto a soli 34 anni, officiata da padre Geoffrey Jolliffe. Impariamo man mano a conoscere questa non comune figura di sacerdote attraverso le parole con cui si rivolge direttamente a Dio e quelle a chi è intervenuto alla commemorazione.

Clive era il massaggiatore di colore preferito dai vip e una folta rappresentanza dei suoi clienti più mondani e frivoli è lì presente, mescolata ai pochi parrocchiani (non manca però Leo, l’aitante e vigoroso autista di autobus che nelle processioni porta la croce) e a qualche beghina, troviamo l’attore delle soap televisive in cui recita quasi sempre nudo, la scrittrice diventata femminista, un discusso archistar che ha causato un disastro in un aeroporto e un talentuoso musicista.

Non avvezzi alla pratica religiosa, c’è chi scambia le effigi della via crucis per una mostra di quadri, chi crede che i due ladroni sia il nome di un ristorante stellato, chi confonde l’incenso per cannabis e l’acquasantiera per un posacenere e chi chiama dépliant il libro degli inni.  Assai folta è la rappresentanza gay con, tra gli altri, alcuni baldi giovanotti abbigliati come stessero recandosi verso la celebre spiaggia di Maspalomas nelle isole Canarie.

Scopriamo che l’avvenenza di Clive, oltre alla sua competenza professionale, era molto apprezzata da uomini e donne e che le sue grazie erano dispensate in modo ecumenico dietro un lauto compenso extra. Fasciato in un’aderentissima canottiera, pantaloncini di nylon e perizoma gonfio, era un invito sfacciato a una sessione erotica capace di procurare i benefici di un vero guaritore.

Gianluca Ferrato – ph. Neri Oddo

A usufruire di questi momenti di piacere era anche lo stesso Geoffrey che con Clive aveva stretto un sincero rapporto di amicizia e complicità. Per il sacerdote questa funzione diventa anche occasione di calarsi in una sorta di seduta di autocoscienza che non può non toccare il conflitto tra il suo ruolo e la conseguente accettazione di un codice etico e morale che non prevede il soggiacere ai desideri della carne, conflitto che lui sembra esser riuscito a conciliare con serenità, tanto da chiamare l’arcivescovo di Canterbury “il mio patatino”.

Dal dialogo di Geoffrey con se stesso e a quello con i presenti, l’azione si movimenta con i contributi di amici e conoscenti del defunto: il musicista esegue al piano una serenata di Schubert, ma subito dopo a destabilizzare l’atmosfera e imbarazzare l’officiante (che è tentato di censurarlo) interviene Bob che parla di Clive come del suo amante e la fatidica parola gay viene per la prima volta pronunziata. Non solo: ricordando la loro relazione, Bob forse inconsapevolmente instilla il dubbio che il massaggiatore fosse affetto da un virus. Si diffonde comprensibilmente il panico tra gli astanti e lo stesso Geoffrey: lo spettro dell’AIDS viene evocato nel pensiero di quanti avevano avuto con lui regolari rapporti intimi. Non ne è esente lo stesso sacerdote che fa la conta di quante volte si è concesso a Clive, compresa quella in sacrestia con lui già abbigliato per celebrare messa.

A rassicurare però i presenti prende la parola lo studente Daniel che ricorda il viaggio fatto insieme a Clive durante il quale fu punto da un insetto con la conseguenza di morirne poi a breve. A fugare definitivamente quelle ansie, prende la parola il medico del massaggiatore che, conoscendo i risultati dei suoi esami, ne conferma la perfetta salute. La funzione può così terminare con sollievo di Geoffrey che deve però tollerare la visione di due sfacciati che, colti da improvvisa passione, cominciano a scambiarsi effusioni assai spinte in un angolo della chiesa. Il finale vede Daniel che, prima di avviarsi alla stazione per tornare a Sheffield, consegna a Geoffrey il libro contabile di Clive dove una pagina è dedicata al sacerdote: per quest’ultimo il quaderno rappresenterà il simbolico congedo da una persona che gli aveva donato momenti di appagamento e alla quale è venuto il momento di dire addio.

Ad arricchire il già efficace testo di Bennett contribuisce la drammaturgia di Tobia Rossi, giovane autore già assai apprezzato, che dà ritmo alla vicenda, rendendo il personaggio di Geoffrey più che sfaccettato, affidandogli più voci e tipologie umane, alternando scritture (la lettera di san Paolo ai Romani) e orazioni a inni sacri e canzoni pop come Somebody To Love e The Show must Go On dei Queen.

A coprire questo non semplice ruolo è Gianluca Ferrato, al suo terzo monologo dopo il drammatico Capotedi Massimo Sgorbani e lo struggente Tutto sua madre di Guillame Gallienne. Capace di dar voce ai dubbi sulla fede, di farci immaginare alla perfezione una fauna di varia umanità, di ricordare momenti intimi e poco ortodossi, sempre con acume, spirito critico e dissacrante, Ferrato ci regala una performance davvero eccellente nei diversi registri, compreso quello del canto.

La regia a quattro mani, firmata da Roberto Piana e Angelo Curci, asseconda il testo a cui conferisce giusti tempi e vivacità. La scena di notevole impatto (un alto parallelepipedo verticale di color rosso acceso che, rotante e con ripidi scalini, funge da pulpito, confessionale e sacrestia, mentre su uno schermo a lato scorgiamo l’immagine illuminata di Clive) è una creazione di Francesco Fassone; i costumi sono di Agostino Porchietto; light designer Renato Barattucci.

Gianluca Ferrato – ph. Neri Oddo

La cerimonia del massaggio, prodotta da Società per Attori, dopo il festeggiato debutto estivo al Festival Astiteatro, torna in scena al teatro OffOff di Roma dal 21 al 26 gennaio, poi sarà al Municipale di Nizza Monferrato (29 gennaio), Rossetti di Trieste (18 e 19 febbraio), Nuovo Comunale di Gradisca d’Isonzo (20-22 febbraio) e Gobetti di Torino (dal 13 al 18 maggio).

Dopo la prima al teatro Alfieri di Asti abbiamo chiesto a Gianluca di approfondire le ragioni della scelta di questo lavoro oltre a qualche considerazione sul valore del teatro per la comunità LGBT.

Come sei venuto a conoscenza di questo monologo di Bennett, come ti ci sei avvicinato e, infine, perché hai deciso d’interpretarlo?                                                                                                                                

Il regista Roberto Piana e io quattro anni dopo Tutto sua madre cercavamo un altro capitolo da aggiungere al nostro viaggio. Il 2024 era anche l’anno del novantesimo compleanno di Bennett e noi che siamo sentimentali pensavamo che, pur senza una torta per festeggiarlo, sarebbe stata una bella cosa omaggiarlo. Abbiamo così letto e riletto tanto del grande scrittore prima di scegliere su cosa porre la nostra attenzione. Ci ricordavamo della Cerimonia del massaggio, perché lo fece con successo Anna Marchesini. Non è stato facile ritrovare il monologo che la stessa attrice aveva tradotto e inventato dal libro, ma non ne esisteva una versione scritta per il teatro. Abbiamo allora chiesto a Tobia Rossi di governarlo per me ed è nato così questo spettacolo. Ho fiducia di aver fatto un lavoro che mi rappresenta.

Gianluca Ferrato – ph. Neri Oddo

Dopo Capote e Tutto sua madre questo è il tuo terzo monologo. Pensi ci sia qualcosa in comune tra loro e che tipo di testimonianza umana e sociale possono fornire circa la specificità gay?

Sono tre mondi molto diversi quelli di Truman Capote, del francese Guillame Gallienne e quello di Alan Bennett. La scrittura di Massimo Sgorbani per Capote era ruvida, spigolosa, al vetriolo e dolente, ma se dovessi sintetizzare in un aggettivo direi che era commovente. Tutto sua madre è uno stupefacente gioco di ruoli e mi sono divertito a osare: non era uno spettacolo, era un condominio ed è stata una grande sfida che dopo ottanta recite penso di aver vinta. Alan Bennett è magnifico con la sua malizia, ironia, graffio e sorpresa continua, un vero giocoliere della parola. Una cosa però accumuna i tre monologhi: credo abbiano a che fare con il desiderio e l’anelito alla libertà di dire e di essere, non quella di non essere. Truman ha pagato caro quell’anelito, si è giocato la vita, ma in qualche modo ha liberato dal cappio molto mondo gay, rilasciando energie sino allora addormentate e riposte chissà dove. Guillame ha messo in gioco il rapporto con la Madre e anche qui il desiderio di rivendicare la propria vita indipendentemente dalle di lei volontà. Il rapporto madre-figlio per un gay è un tema complesso, le insidie sono lì a un passo. Bennett addirittura affronta lo scabroso e scomodo tema del conflitto tra fede e omosessualità, ridendoci anche su però mettendo padre Geoffrey nella condizione di rivelarsi senza infingimenti. Socialmente e politicamente scorretti tutti e tre, ma proprio per questo necessari e confortanti.

Pensi che attraverso queste proposte con siffatti temi, godibili e al tempo stesso specchio di una società o gruppo sociale, possano essere utili a veicolare un messaggio positivo verso la comunità LGBT in questo nostro contesto italiano di obiettiva precarietà?

Mi auguro di sì, ovviamente, e credo che nello sceglierli ci abbia fatto un pensiero più che preciso: un pensiero che potessero essere utili a una comunità sempre meglio accessoriata, ma che ancora tanta strada è chiamata a fare. Questi tre monologhi dovevano rappresentarmi e forse permettere a chi è più giovane o anche a chi non lo è più, di aggiungere preziosità al proprio cammino. Non ho pretese di alcun genere però se solo qualcuno è uscito e uscirà dai teatri rinfrancato o alleggerito, io sono già contento, perché strappare sorrisi o risate tonanti e qualche lacrima per una insperata commozione è tanta roba, come si usa dire oggidì. E io voglio stare in questo presente e vedere come va a finire.