Da sottocultura underground della comunità gay maschile a fenomeno pop globale, oramai quasi chiunque sa chi o cos’è una “drag queen”. Un libro illustrato prova a ripercorrere la storia di questo modo di espressione personale assurto a forma d’arte, non centrando proprio in pieno il suo obiettivo e facendo alzare il livello di attenzione su minacce in avvicinamento verso l’universo LGBT.
foto di Church of the King per Unsplash
Una drag queen a quasi tutti evoca il pensiero “trasgressivo” di un maschio gay che impersona un essere femminile, tendenzialmente per fare spettacolo. Non ci si ricorda per associazione, invece, che per secoli la presenza sui palcoscenici è stata vietata alle donne e di conseguenza tutti i ruoli erano affidati solo agli uomini e nessuno batteva ciglio.
In Italia prima di adottare questa definizione inglese (direi che mai o davvero poco è stata usata l’alternativa female impersonator) si chiamavano “trasformisti” e intrattenevano un pubblico eterosessuale facendo cabaret in night club perlopiù specializzati. A Milano c’era l’Alexander in zona Navigli, e in Europa probabilmente il più famoso è dal 1946 Madame Arthur a Pigalle, il quartiere a luci rosse di Parigi. Plausibilmente si può dire che a quei tempi in questi performer i confini tra omosessualità e transgenerità non erano sempre così definiti come lo si propone adesso.
La giornalista francese cis-etero (com’è uso dire adesso) Apolline Bazin ha provato a ricostruirne la storia in DRAG Un’arte queer che scuote il mondo, tradotto e pubblicato in italiano dalla casa editrice 24 ORE Cultura, con adattamenti a cura di Stefano Mastropaolo, attivista e socio del Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli, e la prefazione a cura di Priscilla – Mariano Gallo, conduttrice delle tre stagioni televisive di Drag Race Italia.
Il testo di Priscilla con refuso (“tacking” invece che tucking, il nascondere il pene e i testicoli tra le gambe per simulare la presenza di una vulva) ha sostituito quello scritto nell’edizione originale da Nicky Doll, partecipante alla 12a edizione di RuPaul’s Drag Race, host di Drag Race France, che con altre regine d’Oltralpe ha preso parte alla cerimonia d’apertura delle Olimpiadi 2024 scatenando le ire funeste di destre e benpensanti cattolici che hanno voluto vedere quello che proprio non c’era: una blasfema raffigurazione dell’ultima cena di Gesù Cristo con gli apostoli.
“Tacking” sembra un inconsapevole gioco di parole con tacco (a spillo, naturalmente), però denota una disattenzione nella correzione delle bozze che ci permettiamo di dire rasenta l’imperdonabile (e qui vorremmo terminare l’articolo uscendo dalla stanza con un’apertura di ventaglio a scatto e sguardo sdegnato rivolto verso l’alto). La rivista Lambda, un periodico del movimento di liberazione gay italiano degli anni ’70, è diventata “Lamba”, mentre il gruppo teatrale hippie d’avanguardia basato a San Francisco “The Cockettes” (gioco di parole con l’inglese cock, cazzo, e l’aggettivo francese coquette, civettuola) diventa Cokettes che più che altro ricorda la Coca Cola… Concediamo che solo è lievemente meno grave.
Questo volume di più di 200 pagine è composto da cinque capitoli principali: DRAG BEFORE DRAG; IL TEMPO DELLE PAILETTES; DRAGTIVISTI; FREAK E MOSTRI; LA PAROLA FINE, divisi in sotto-capitoli con paragrafi titolati, molte fotografie e varie interviste A mio personale avviso l’autrice martella spesso un tassello quadrato dentro a un buco rotondo, perché è confusionaria la corrispondenza presente nel titolo tra la parola drag e l’aggettivo queer, che è polisemantico ovvero cambia senso in base al contesto in cui si usa. Se non si specifica il significato che gli si attribuisce di volta in volta si crea un’abile cortina di fumo davanti agli occhi ignari di chi legge, e da un punto di vista politico LGBT questo è un problema non di poco conto, soprattutto quando lo fa una cosiddetta persona “alleata” che decide di parlare di noi e per noi.
Siamo davanti a un pericoloso esempio di cultural queerness, o di persona “culturally queer”, non preoccupatevi se non ne avete ancora mai sentito parlare, solo iniziate a spaventarvi… Trascrivo e traduco di seguito un paragrafo da un articolo pubblicato dal sito CNN Entertainment il 30 aprile 2024 sull’attore Darren Criss, uomo cis-etero famoso per aver interpretato la parte del gay Blaine nella serie TV Glee, ma anche quella di Andrew Cunanan, l’assassino di Gianni Versace, nella seconda stagione di American Crime Story creata dal geniale Ryan Murphy. Darren Criss si è definito così durante un incontro tenutosi al Chicago Comic & Entertainment Expo ad aprile scorso, scatenando reazioni molto interessanti da analizzare, soprattutto il commento di Vanity Fair da confrontare con quello di DIVA, il più importante magazine for LGBTQIA women and non-binary people del mondo.
“Culturally queer” is defined as someone who grows up “immersed in queer culture, including traditions, celebrations, media, and language,” according to the Queerspawn Resource Project. Additionally, “some LGBTQ+ individuals use the term to describe allies who go over and above expectations in demonstrations of both their allyship and understanding of queer culture,” as defined by PFLAG. Si definisce “Culturalmente queer” qualcuno che cresce “immerso nella cultura queer, tra cui tradizioni, celebrazioni, media e linguaggio”, secondo il Queerspawn Resource Project. Inoltre, “alcune persone LGBTQ+ usano il termine per descrivere alleati che vanno oltre le aspettative nelle dimostrazioni sia della loro alleanza che della loro comprensione della cultura queer”, come definito da PFLAG (che si può considerare il corrispondente statunitense di AGEDO Nazionale).
All’inizio del primo capitolo l’autrice cerca le radici del cambiare i codici vestimentari di apparenza fisica legati all’appartenenza a un genere di nascita biologica basata sui cromosomi XY o XX e quindi dei corrispettivi ruoli sociali che ci si aspetta siano seguiti. Ammetto il mio provocatorio eccesso di politicamente corretto, e detto in maniera più semplice grazie a Giovanni Dall’Orto, noi ci vestiamo in base “all’espressione socialmente determinata del nostro sesso”. Apolline Bazin però annaspa nel trovare un filo conduttore tra i travestiti dell’antica Grecia, il teatro Kabuki giapponese, l’Opera di Pechino, il vaudeville francese, il teatro shakespeariano e la Pantomima come arti dello spettacolo antenate del drag. Nessun accenno, invece, alla compagnia nipponica di musical Takarakuza Revue, solo femminile, nata agli inizi del XX secolo e tuttora molto in voga.
Prosegue per questa tangente con “La corte di Versailles può essere considerata sotto molti aspetti come un luogo proto drag” (…), perché (…) “Gli abiti maschili a quel tempo sono sfarzosi quanto quelli femminili: le acconciature sono alte e gonfie, i ricami ridondanti, i tessuti cangianti, il trucco pesante e le scarpe… con i tacchi!”. Per chi poteva permetterselo erano semplicemente la moda e l’usanza del tempo e del luogo, quindi non è un’azione queer e non è accostabile al drag LGBT nemmeno da lontano. Ci vorranno per di più alcuni secoli prima che nasca la cosiddetta ballroom scene, diventata famosa dopo il documentario Paris Is Burning e più recentemente grazie alla serie TV Pose, altro capolavoro di Ryan Murphy.
Nel libro si descrive anche il caso ben poco conosciuto da noi del cavaliere d’Éon (Charles d’Éon de Beaumont), diplomatico e spia per Luigi XV in Inghilterra, che visse per 33 anni vestito da donna. Si prosegue nei secoli a venire e lei intruglia un enorme minestrone di citazioni, situazioni, persone e personaggi che creano una storia del travestitismo, soprattutto nell’universo dello spettacolo dal cinema al teatro alla musica. La cosa principale su cui non mi trovo d’accordo quindi è la sua tesi di corrispondenza diretta tra travestimento e drag LGBT, anche se è indubbio che “In materia di travestimento (e in seguito di drag), la posta in gioco non è la stessa se si è nati donna o uomo. La trasgressione alla normativa di genere non ha il medesimo impatto simbolico”.
Molteplici sono i motivi per cui si decide o si sceglie o si sente la necessità di tra/vestirsi secondo i codici di abbigliamento che in un determinato periodo storico-culturale o zona geografica-culturale appartengono all’altro genere rispetto al proprio di nascita (o come si può anche dire adesso AMAB, assigned male at birth o AFAB, assigned female at birth). Questi motivi non sono necessariamente legati tra loro né hanno avuto anche sempre una valenza politica o “queer” come lotta, sfida, parodia o sberleffo a una serie di norme, comportamenti e tradizioni sociali imposte dal sistema eteropatriarcale. In questo senso se usiamo il termine queer queste ragioni appartengono all’universo LGBT di cui Apolline Bazin non fa parte.
Adesso nel perimetro della transgenerità non si parla più solo d’identità di genere bensì anche di espressione di genere e persino di affermazione di genere. Dubito che Jack Lemmon e Tony Curtis, citati nel libro, ci pensassero quando recitarono en travesti insieme a Marilyn Monroe in A qualcuno piace caldo di Billy Wilder. Lo facevano per scappare dalla mafia che li vuole morti perché sono stati testimoni involontari della strage di San Valentino e l’effetto voleva essere comico. La frase a effetto di chiusura del film è passata alla storia: nessuno è perfetto. Di certo non lo è nemmeno questo libro che comunque non presenta solo difetti.
DRAG Un’arte queer che scuote il mondo ha anche buone pagine dove si ripercorrono episodi storici delle lotte moderne per la conquista dei diritti civili LGBT in USA e Francia, e riconosce che allo scoppiare dei moti di Stonewall Sylvia Rivera non si trovava sul posto, a differenza di quanto afferma Emiliano Reali in pride! edito da Verba Maneant. Racconta delle Sorelle della Perpetua Indulgenza, un “ordine di religiose” poco conosciuto in Italia e nato negli Stati Uniti a Pasqua del 1979. Inizialmente era composto solo da uomini gay travestiti come appariscenti suore e furono molto attive nella solidarietà allo scoppio della pandemia da AIDS. Approfondito anche l’ambito delle donne lesbiche che si travestono da uomo, i cosiddetti e molto meno conosciuti e visibili drag king.
Un’altra questione sollevata dall’autrice che per me è doveroso dibattere, è che adesso chiunque si mette a fare la drag queen: donne e uomini transgender, uomini e donne eterosessuali (chiamate faux queen). Vi ricordate del programma Non sono una signora condotto per una sola stagione da Alba Parietti su RAI2? Il libro presenta un’arringa difensiva per questa inclusione che io all’opposto definisco invasione. Vi rimando alla lettura del libro per i dettagli e farvi una vostra opinione in merito.
Io voglio suonare un campanello d’allarme, perché ritengo pericoloso che diventi complesso tracciare linee di confine tra l’apprezzamento culturale e l’appropriazione culturale LGBT. Siamo di fronte ad accettazione delle diversità o a integrazione omogeneizzante? Conquistato rispetto o ritorno al soggiogamento? Inclusività o assimilazione? Possiamo davvero permetterci il lusso che a lungo andare finiamo cancellati nelle nostre specificità che le nuove generazioni stanno pure ampliando? Basta pensare a LGBTQIA+ e in Canada aggiungete anche “2S” per le persone native two spirits… “Signora mia, dove andremo mai a finire di questo passo?” mi verrebbe da esclamare, e così facendo mi chiedo se il lavaggio dei cervelli dei movimenti di destra non sia molto più efficace di quanto non pensiamo! Sono un maschio biologico gay reazionario, e una rivoluzione “queer” di generi e di corpi che si auto-identificano riterrà che merito di fare la fine di Maria Antonietta?…
La citazione più famosa di RuPaul (attualmente la più famosa, ricca e potente drag queen del pianeta per chi non lo conoscesse), probabilmente è We are all born naked, the rest is drag, tutti noi nasciamo nudi e il resto è “vestirsi”. Le cose nel tempo cambiano e adesso per fortuna una donna che indossa i pantaloni non la nota o imprigiona nessuno, mentre per strada un uomo occidentale non scozzese con la gonna ancora suscita sconcerto, sospetto o scherno. Il Metropolitan Musem of Modern Art però nel 2003 allestì la mostra Bravehearts: Men in Skirts (sponsorizzata da Jean Paul Gaultier ça va sans dire) e nella presentazione spiega che una volta tanto c’è un’asimmetria a favore del genere femminile.
Sempre Mama Ru dice che il drag in realtà non ti nasconde bensì ti rivela, suggerendo agli uomini cis-etero e cis-gay (ovvero persone non transgender) di provare a calzare un paio di scarpe décolleté con tacco e vedere cosa emerge in loro (per saperne di più sul neologismo “cisgender” leggete qui). Se in quanto uomini tra/vestirsi da donna può essere un’arte sia sul palco sia nella vita di tutti i giorni, l’accettazione sociale della cosa e gli annessi problemi e persino i pericoli sono ben differenti. Per Apolline Bazin per una donna travestirsi da… donna è giustificato dal fatto che “(…) sviluppare un personaggio queen può rappresentare uno strumento di empowerment per distorcere i contorni della femminilità e di riappropriarsene”.
Fare la drag queen è passato da essere underground a mainstream. Da momento di divertimento baraccone per poche persone in un locale per maschi omosessuali, quindi un nostro spazio sicuro di accoglienza e di libertà, piuttosto che una fortemente visibile forma di protesta politica a un corteo del pride, ad apparizione in televisione generalista patinata e ultra-camp, dove la trasgressione al genere è addomesticata e di conseguenza il suo impatto è (abilmente?) depotenziato. Abbiamo conquistato un nuovo territorio però a che prezzo in realtà, e in Italia per quanto tempo in realtà? Sia la quarta stagione di Drag Race Italia sia un’eventuale seconda stagione di Non sono una signora sono state eliminate dai palinsesti TV.
Una volta, inoltre, bastava prendere dall’armadio della mamma un vestito possibilmente di dubbio gusto e imitare male al microfono in playback un’icona gay della canzone per strappare l’applauso. Adesso per apparire al top servono costumi elaboratissimi da abbinare a gioielli finti straordinari, trucco impeccabile sul viso e in testa parrucche da capogiro. Se sapete recitare, cantare, ballare alla perfezione ben venga, anzi è diventato il minimo sindacale richiesto, insieme a un investimento di svariate migliaia di dollari, per essere ammesse a una delle corti di RuPaul’s Drag Race o a un suo DragCon. Altrimenti rassegnatevi a essere delle drag queen di serie B.
Mettendo un attimo da parte l’invidia per aver creato un’economia, dichiaro sincera ammirazione verso RuPaul perché in moltissime parti del mondo ha anche creato in/formazione sia verso il grande pubblico sia verso chi si sta scoprendo persona LGBT. Affermo anche che il separatismo è un valore che abbiamo imparato dal femminismo da tenere in debita considerazione, perché politicamente e non solo serve. Tornando a DRAG Un’arte queer che scuote il mondo, l’opera contiene interviste interessanti a varie drag queen e alcuni drag king d’oltralpe, a cui nell’edizione italiana sono state aggiunte le voci di Lina Galore, vincitrice della terza edizione di Drag Race Italia, e di Tsunami, voce sul carro principale del Roma Pride durante la parata.
La mia recensione è diventata un editoriale e in parte un’arringa accusatoria, in quanto l’opera di Apolline Bazin fa spesso di tutta un’erba un fascio non spiegando correttamente parti delle nostre subculture e delle nostre storie che ci contraddistinguono: le mancano basi sufficientemente ampie e corrette della cultura LGBT e soprattutto l’esperienza condivisa. Cambiare le carte in tavola risignificando le narrazioni come (le) fa più comodo, o peggio le regole del nostro gioco, per quanto mi riguarda è inammissibile. Anyway, I opened the library and “read” the book. Now it’s time for me to sashay away. Non mi avete capito soprattutto per quanto riguarda il senso (da iniziati al culto) di “leggere” il libro? Shade on you!