È giunto alla quinta edizione il Ginesio Fest che ha avuto per tema la solitudine, sviscerata in numerose variabili. Tra gli spettacoli del cartellone di alto profilo quello di Tindaro Granata con la colonna sonora di Mina, la nostra più iconica cantante, e quello di Claudio Tolcachir che rivisita Annibale Ruccello.

Tindaro Granata in “Vorrei una voce” – foto di Masiar Pasquali

 

Siamo tornati per il terzo anno a San Ginesio, il santo patrono degli attori, suggestivo borgo medievale in provincia di Macerata, seriamente danneggiato dal terremoto del 2016 di cui purtroppo porta ancora i segni anche se, rispetto alla scorsa volta, abbiamo constatato un incoraggiante avanzamento dei lavori di ripristino. Chi ha fortemente voluto questa manifestazione e ha lavorato costantemente per farla diventare una realtà in crescita, non solo teatrale bensì culturale e turistica, è l’ideatrice e direttore organizzativo Isabella Parrucci.

“Il Ginesio Fest è qualcosa che non si può descrivere, ma che si deve vivere: è come un figlio che nasce per un capriccio di riportare alla luce un luogo di millenaria bellezza e cresce nel paradosso di trovarsi nel ‘borgo degli attori’ pur non avendo al momento un teatro, inagibile dal terremoto. Il Ginesio Fest ha giocato sempre al rialzo e grazie alla sua forza ostinata si è fatto conoscere e apprezzare da professionisti e non, ridando fiducia ai tanti ginesini che si sono così cimentatati a lanciare nuovi progetti legati alla crescita culturale della comunità. Il nostro Festival racconta le storie di chi lo vive e ha messo in piedi una famiglia bellissima destinata a diventare sempre più numerosa, unita dall’amore per il teatro e per i luoghi che lo animano.”

Il direttore artistico, il regista Leonardo Lidi al suo terzo mandato, così motiva la scelta della solitudine come tema e il conseguente orientamento sui monologhi. “Solitudine come esclusione da ogni rapporto di presenza o vicinanza altrui – sottolinea Lidi – come desiderata o ricercata quale motivo di pace o di raccolta intimità, oppure patita in conseguenza di una totale mancanza di affetti, di sostegno e di conforto. I monologhi sono, nel bene e nel male, il fenomeno teatrale del 2000 e hanno la peculiarità di raccontare, qualunque sia il contenuto dello spettacolo, lo stato di solitudine nella quale è immerso l’attore di oggi. È solo tramite i monologhi che ho inteso attraversare questo mio terzo viaggio festivaliero.”

Ad aprire la rassegna è stato Christian La Rosa, autore e interprete di Senza motivo apparente, ispirato al libro di Sergio Anelli Omicidio in danno del dottor A. che prende lo spunto da un fatto di cronaca: il ferimento (che poi si rivelerà fatale) da parte della mafia del direttore sanitario dell’ospedale di Saluzzo. In questo caso si può parlare di solitudine giudiziaria con uno Stato che non ha saputo tutelare un integerrimo funzionario che si opponeva alla corruzione vigente nel nosocomio, alimentata o tollerata dai suoi colleghi i quali lo avevano da tempo isolato e osteggiato. Con grande partecipazione emotiva (Saluzzo, infatti, è la città dell’attore) e altrettanto rigore, La Rosa ha dato un ottimo esempio di teatro civile che va al di là della semplice narrazione ma è forte di una scrittura dal respiro drammaturgico.   

La sua Lettera è diventato uno spettacolo di culto che vanta ben 32 anni di repliche. Performer di statura internazionale, Paolo Nani ha presentato Piccoli miracoli, drammaturgia di Gitta Malling e regia del norvegese Frede Gulbrandsen. Come sempre nella cifra di Nani (che tra i suoi maestri cita Roberta Carreri, formatasi nella compagnia dell’Odin Teatret di Eugenio Barba) lo spettacolo è senza parole però costantemente soffuso da un alito poetico. Incontriamo in scena un personaggio singolare, allampanato e un po’ bizzarro, che indossa larghe braghe da clown e un corpetto, intento a espletare bisogni corporali e a maneggiare una radio alla ricerca di una musica di suo gradimento, l’evergreen Night and Day di Cole Porter per esempio, che lo induce a tentare qualche passo di danza.

Eleonora Danco – ph. Ester Colarieti

Me vojo sarvà è il monologo che anni fa ha imposto all’attenzione della scena teatrale l’attrice e autrice Eleonora Danco che ci porta nelle strade di periferia della capitale dove si muovono una serie di personaggi, in primis l’io narrante, una verace piccolo borghese di 37 anni, e i componenti della sua famiglia, vere e proprie maschere con cui la protagonista interagisce. A questo Danco ha unito un altro assolo, Nessuno ci guarda, non più nel dialetto romano ma in italiano. Ispirandosi alle fantasie di Fellini, ci convince di quanto gli anni dell’infanzia abbiano poi influenzato il nostro vissuto. Oltre ai suoi testi, quello che colpisce è la padronanza del corpo e come lo sa muovere in scena, febbrile, irrequieto, al pari dell’uso della voce, potente e mutevole.

Lucia Calamaro nel corso di tre lustri si è guadagnata una solida fama (a partire da L’origine del mondo-Ritratto di un interno che viene riallestito nella prossima stagione con un cast rinnovato) come regista e autrice di testi che hanno quasi sempre al centro dei nuclei familiari, spesso disfunzionali e talvolta con componenti omosessuali. Nel monologo Smarrimento troviamo uno dei sui tipici personaggi, spesso in lotta con la vita e con se stessi. È una scrittrice che soffre di un blocco a causa del quale non riesce più a terminare i romanzi che ha iniziato. I suoi editori, per recuperare l’anticipo versatole, le organizzano dei reading in diverse città nella speranza di vendere poi qualche copia delle opere già pubblicate. In una di queste trasferte, sola in una camera d’albergo, s’identica con Anna, la protagonista di un libro appena abbozzato. A dar voce e corpo a questa donna è l’attrice Lucia Mascino, volto anche televisivo e partner di Filippo Timi in molti spettacoli. Qui si rivela affascinante affabulatrice che sa alleggerire il materiale drammatico, strappando spesso il sorriso se non la risata, a volte stimolando gli spettatori che interagiscono con lei.

Rosario Lisma – ph. Donato Aquaro

Prendendo lo spunto dalla non facile vita di un amico d’infanzia, Rosario Lisma ha scritto Giusto, protagonista un quarantenne emigrato a Milano dalla sua isola del Sud, dove ha trovato un impiego all’INPS. È una persona educata, disponibile e gentile con tutti, destinato quindi a diventare il facile bersaglio di colleghi volgari e prepotenti. Lo vediamo durante una serata decisamente sfortunata dopo che ha controvoglia deciso di partecipare a un party organizzato dal suo capufficio in cui è fatto oggetto di lazzi e soperchierie. Del tutto imprevista, arriva però una sorpresa… Lisma, autore di questo piccolo gioiello che ha per titolo proprio il nome del protagonista, è anche il bravissimo interprete di questo monologo agrodolce tra tristezza e ilarità, mixate con una calibrata vena surreale, oltre a sorprenderci con inaspettate doti nel canto e nel ballo.

Veniamo ora ai due spettacoli che più ci hanno coinvolto ed emozionato. Annibale Ruccello, insieme a Enzo Moscato e Manlio Santanelli, negli anni Ottanta è stato uno degli artefici del rinnovamento della scena napoletana (andando poi ben oltre i confini regionali), quaranta anni dopo Raffaele Viviani e Eduardo De Filippo. Ruccello, drammaturgo e attore, è scomparso a soli 30 anni a causa di un incidente stradale, ma ci ha lasciato testi che sfidano il tempo e parlano ancora al nostro presente e le sue pièce continuano a essere oggetto di messe in scena e rivisitazioni. In Ferdinando (in programma al teatro India di Roma dall’1 al 6 aprile) troviamo un prete omosessuale sedotto da un giovanotto sotto falsa identità, e in Le cinque rose di Jennifer (sempre all’India dal 5 al 9 marzo) il protagonista è un maturo travestito napoletano in attesa della telefonata del suo presunto amante, senza dimenticare  Notturno di donna con ospiti e Weekend. 

Una delle meno frequentate (ne ricordiamo un allestimento con Anna Marchesini, prima in teatro e poi in televisione e uno studio recente con Maria Paiato diretta da Pierpaolo Sepe) è Anna Cappelli, scritta nel 1986, che racconta la vicenda di Anna, donna non più giovanissima, che per sfuggire a genitori oppressivi che la umiliano davanti alle sorelle Giuliana e Teresa, si trasferisce in una città di provincia dove trova un lavoro nella pubblica amministrazione, sognando di poter dare una svolta alla sua vita. Non potendosi permettere un appartamento proprio, è costretta ad affittare una camera a casa della signora Tavernini, una sorta di megera della quale deve sopportare i gatti molesti e gli odori nauseabondi della sua cucina.

Con una certa sorpresa, priva com’è di una gratificante vita sentimentale, si accorge delle attenzioni di un collega, il ragionier Scarpa, che inizia a corteggiarla. La loro relazione si consolida e l’uomo le chiede di andare a convivere però si rifiuta di sposarla. Dopo parecchie titubanze, Anna accetta, scatenando le critiche moralistiche della Tavernini alle quali, oltre a non scalfirla, ribatte dicendole tutto quanto aveva represso durante la sua permanenza. Trascorrono due anni e il loro rapporto s’incrina: Anna è diventata opprimente e impositiva e un giorno Scarpa le annuncia che ha chiesto il trasferimento in una città lontana dove andrà da solo. Sconvolta e incapace di accettare la realtà dei fatti, la donna si risolve a compiere un gesto estremo. Non lo riveliamo per chi vedrà la pièce nella prossima stagione (all’India in gennaio e al Franco Parenti di Milano in aprile).

Valentina Picello

A firmare la regia è l’argentino Claudio Tolcachir, anche celebrato drammaturgo, che già conosciamo per Emilia ed Edificio 3. Si è avvicinato a Ruccello ponendo l’accento sulla solitudine e la mancanza di risorse della protagonista (la vicenda potrebbe benissimo adattarsi a un personaggio maschile) innestando anche una vena d’umorismo che è una costante nei suoi lavori. Per Anna ha voluto l’eclettica Valentina Picello che ne fa un ritratto eccellente, toccando tutte le corde possibili dell’animo di questa fragile creatura che si muove su una scena che è una sorta di discarica dove sono abbandonati gli elettrodomestici più disparati. Per quello di sé che porta in ogni spettacolo e il suo talento, l’attrice ci ricorda l’indimenticabile Piera Degli Esposti, fatta salva la sua precisa identità.

È ancora vivo nella memoria il ricordo di Geppetto e Geppetto, in cui una coppia gay decide di avere un figlio che avrà due padri e una vera famiglia. Arrivato ai 20 anni il ragazzo entra in conflitto con il genitore non biologico, desiderando riconoscere e identificarsi in una sola figura paterna. Ora, reduce dalla recente interpretazione nella Pulce nell’orecchio di Feydeau diretto dal suo compagno Carmelo Rifici, Tindaro Granata si cimenta di nuovo con un monologo (dopo lo struggente e autobiografico Antropolaroid, ancora in scena nonostante i suoi 15 anni di vita) con Vorrei una voce, nato dalla sua esperienza maturata durante il laboratorio teatrale condotto all’interno della Casa Circondariale di Messina con le detenute. L’attore e autore ha raccolto le testimonianze del vissuto di alcune di loro innestandole con alcuni capitoli della sua storia personale.

La felice e originale trovata è quella di abbinare le rispettive vicende ai testi delle canzoni di Mina, l’indiscussa nostra più grande cantante e icona gay per eccellenza. Tre elementi che hanno costituito l’intelaiatura del saggio previsto alla conclusione del laboratorio. Dopo l’emozionante incipit con la Tigre sullo schermo nella registrazione del suo concerto d’addio alla Bussola nel 1978 mentre canta Io vivrò senza te, si dipanano poi le storie di Assunta, assassina per vendetta dopo che le hanno ucciso il figlio; di Jessica, probabile uxorocida; di Sonia di cui non sappiamo la colpa.

Tindaro Granata – ph. Ester Colarieti

Come accennato, non mancano quelle personali di Tindaro, sia nella dolorosa rivelazione delle incomprensioni dei genitori e in quella di un amore nato quand’era ragazzo in Sicilia e durato venti anni, con un compaesano che poi, come tanti, decise di sposarsi. Senza autocensure racconta degli ardenti rapporti sessuali sin da quando, ragazzini, si amavano nei campi o di quando, già adulti, coglievano ogni occasione per appartarsi alle feste o ai pranzi. Il partner però aveva rapporti anche eterosessuali e una ragazza si trovò ad aspettare un figlio da lui. A questo punto, pur straziato, Tindaro decise di lasciarlo per il bene del nascituro.

È sempre la voce di Mina che accompagna queste confessioni, ma è lo stesso protagonista a cimentarsi in un coraggioso playback, fasciato in scintillanti miniabiti o bluse di lamé. Non mancano momenti di leggerezza, alternandoli a quelli ricchi di tensione drammatica, quando, nel vernacolo siciliano e in altri del nostro Sud, Granata dà voce all’iniziale diffidenza delle donne, alcune davvero difficili da convincere a diventare attrici anche solo per un giorno. Allestito nel teatro Piccolo Shakespeare del carcere, il saggio avrebbe potuto non avere altri sviluppi. L’autore, infatti, aveva chiesto alle detenute (di alta sicurezza) il permesso di poterlo trasformare in uno spettacolo e dopo l’iniziale diniego, le stesse, conquistate dall’onestà intellettuale dell’artista e dalla sua sensibilità ed empatia, lo hanno infine concesso.

Come annunciato al pubblico nella sua premessa, l’intento di trovare verità e concretezza in quei vissuti però di raccontarli attraverso una forma d’arte è pienamente raggiunto nel festeggiato ritorno di Granata in un one man show dove è valorizzata al meglio la sua capacità di parlare sia al sentimento che alla testa del pubblico, In attesa di altre date i lettori lo potranno vedere dal 12 al 14 novembre alla Sala Umberto di Roma e dall’11 al 13 aprile alla Sala Assoli di Napoli.

San Ginesio – il Balcone dei Monti Sibillini

Se nella scorsa edizione del festival l’artista residente è stato Filippo Timi, quest’anno è toccato a Alessio Maria Romano, coreografo e pedagogo, studioso del movimento scenico, per anni collaboratore di Luca Ronconi e ora di Antonio Latella, Premio Associazione Critici di Teatro 2015  e Leone d’Argento alla Biennale Teatro 2020. Con gli allievi e le allieve delle scuole dello Stabile di Torino e del Piccolo di Milano ha sviluppato il tema della solitudine attraverso il movimento in un prezioso lavoro di laboratorio di una settimana (dal titolo Island – Concerto per corpi soli) che ha poi mostrato in un’avvincente ed emozionante restituzione in cui i diplomati e diplomandi hanno messo a frutto al meglio i suoi insegnamenti e tecniche.

Il Ginesio Fest 2024 non è stato solo spettacoli e residenze ma anche tanto altro. Non si possono non menzionare la sezione, curata da Vera Vaiano, dedicata all’infanzia e all’adolescenza; quella di Tenersi Compagnia con Christian La Rosa che intervista gli artisti che vedremo in scena la sera; infine una mostra, aperta sino al 4 ottobre, del fotografo Marcello Norberth, scomparso lo scorso marzo, con le immagini di spettacoli che sono entrati nella storia del nostro teatro.

Ambito riconoscimento è infine il Premio all’Arte dell’Attore, ogni anno assegnato da una giuria presieduta da Remo Girone e composta dal critico Rodolfo Di Giammarco, da Lucia Mascino, il regista Giampiero Solari e la poetessa Francesca Merloni. Ad aggiudicarselo in questa edizione sono stati Vanessa Scalera e Giuseppe Battiston che, tra tanto cinema e teatro, ricordiamo interprete di Peppe, il personaggio gay nel film Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese.