Molte vicende e spunti a tema LGBT nell’ultima edizione della Biennale Teatro da poco conclusasi a Venezia. Dalle feroci punizioni inflitte ai sospettati di omofobia da parte di una gang queer che ricorda il modello di quella di Arancia meccanica, al bullismo tra persone disabili, fino alla relazione tra un maturo europeo e un giovane arabo.

Immagine di apertura: Phobia, foto di Maurycy Stankiewicz

 

La 52a edizione del Festival Internazionale del Teatro della Biennale di Venezia, conclusasi all’inizio del mese, ha visto anche la fine del mandato quadriennale dei direttori artistici Stefano Ricci e Gianni Forte (ricci/forte) a cui dal prossimo anno succederà Willem Dafoe, appena nominato, non senza sorpresa, dal nuovo Presidente della Fondazione Pietrangelo Buttafuoco, succeduto a Roberto Cicutto.

Fedeli alla loro cifra stilistica, ricci/forte nel loro quadriennio hanno privilegiato un cartellone che desse spazio ad artisti e compagnie che lavorano sulla diversità, la marginalità, le tematiche di genere, la disabilità, con molte produzioni in prima nazionale e un’eccellente rappresentanza internazionale. Ne hanno fatto fede le scelte riguardo all’assegnazione dei Leoni d’Oro e d’Argento, quest’anno andati rispettivamente all’ensemble australiano Back To Back Theatre e al collettivo anglo-tedesco Gob Squad.

Il titolo scelto dai direttori per la rassegna è stato Niger et Albus, dopo i tre vivaci colori simbolo delle precedenti edizioni. “In principio tutto era bianco e nero – sottolineano – la contrapposizione tra bene e male, gli opposti mescolati, le trame da comporre tra buio e luce, Medioevo e futuro, arcangelo Michele contro Satana, la dicotomia ci governa. L’edizione di Niger et Albus non si è configurata come pensiero dicotomico, ma illustra l’indecifrabile caos del coraggio, la mutevolezza difesa ad oltranza, un rigoroso mazzo di tarocchi con il quale pronosticare un futuro possibile: un festival passe-partout per spalancare le porte dell’immaginario e salpare per un viaggio multidisciplinare negli spazi site-specific della Biennale.”

Numerosi sono stati gli spettacoli con situazioni o riferimenti marcatamente a tema omosessuale: quello più esplicito è stato certamente Phobia, creazione a quattro mani del regista svedese Markus Õhrn e del fotografo e attivista queer polacco Karol Radziszewski, che hanno firmato anche scene, costumi e immagini video. Si raccontano le gesta dei Fag Fighters, versione omo di una gang urbana inventata nel 2007 da Radziszewski sul modello di quella del notissimo romanzo e film Arancia meccanica, con i suoi adepti armati delle regolamentari mazze, però con in capo passamontagna rigorosamente rosa e maschere di gomma che celano il viso.

Nella pièce in tre atti li vediamo, già assurti alla fama grazie ai media e temutissimi dalla popolazione, punire a modo loro chi ritengono o sospettano di sentimenti omofobi o chi sfrutta ipocritamente le minoranze di genere solo per interessi commerciali. Nel primo episodio irrompono nella casa di una tranquilla famiglia liberale e vegana e sottopongono marito, moglie e figlia ai loro temutissimi quiz sulla storia a sfondo LGBT polacca: attraverso ritratti cartonati devono riconoscere re, scrittori e scrittrici, poeti e poetesse, filosofi e ballerini, tutti omosessuali. Il primo a fallire è il marito che viene picchiato e poi stuprato, stessa sorte per la moglie. Si salva solo la ragazzina con una risposta giusta, persa comunque nei suoi deliri che le fanno coccolare e nutrire un cane immaginario.

Phobia – ph. Maurycy Stankiewicz

Il secondo bersaglio è un art director che lavora per un’azienda produttrice di abiti nel cui logo fanno bella mostra le bandiere di varie minoranze sessuali. Il suo compito è quello di attribuire a ognuna la corretta paternità, cosa che il manager ignora e di cui non si è mai preoccupato. La punizione corporale a cui viene sottoposto è tra quelle più estreme: colpito a calci e pugni, viene poi sodomizzato con un gigantesco dildo sparato con una pistola ad aria compressa. Il giocattolo sessuale – ne intuiamo le orride condizioni – sarà poi fatto oggetto di una fellatio da parte del malcapitato.

Nel terzo atto è un drammaturgo svedese la vittima dell’irruzione della gang. È in Polonia per presentare un suo testo teatrale sull’omofobia presente nel paese e viene colto di sorpresa nella stanza di un hotel di Varsavia. I Fag Fighters leggono il copione ed esprimono la loro disapprovazione prima con le solite violenze e lo stupro, poi lo smembrano partendo dal pene, coprendo di sangue le pareti su cui vergano un beffardo epitaffio.

Phobia vuole essere un grottesco atto d’accusa mei confronti dell’omofobia e della violenza fisica e verbale ben radicate in Polonia (si spera che con l’avvento del nuovo governo progressista le cose possano un poco migliorare) di cui sono oggetto le minoranze sessuali. Nella regia di Öhrn appare evidente una massiccia dose di umor nero, però il condivisibile messaggio perde un po’ di efficacia travolto com’è dal grand guignol che spesso lo soverchia facendoci perdere di vista l’essenza della denuncia. In scena si succedono in tutti gli episodi gli adrenalinici Wojciech Kalarus, Evelina Pankowska, Piotr Polak, Magdalena Poplawska e Jan Sobolewski, che improvvisano anche godibili siparietti fuori scena con gli spettatori.

Creations (Pictures for Dorian) – ph. Andrea Avezzù

È Bastian, uno degli attori del Gob Squad, Leone d’Argento, a fare coming out in palcoscenico durante Creations (Pictures for Dorian), richiamo al Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde in cui si leggeva che “L’arte rispecchia lo spettatore e non la vita”, dunque c’è una discrepanza tra la realtà immaginata dall’artista e quella effettiva che è sotto i nostri occhi. L’obiettivo dello spettacolo è, infatti, guardare oltre lo specchio della vanità e cercare risposte alle domande sulla bellezza, la moralità, la paura d’invecchiare e il potere che va combattuto per mezzo della pace.

Gli interpreti, dopo che si sono fatti conoscere attraverso le loro storie personali, vengono incorniciati in pose plastiche come fossero oggetti o nature morte. Come sempre fanno nei loro tour, i Gob Squad per la loro creazione alla Biennale hanno arruolato sul posto sei colleghi reclutati nell’ambito dell’ambiente teatrale, delle arti performative e dello sport. Tra loro troviamo Alessandro, un passato da capocomico di una compagnia veneziana poi scioltasi che affronta con amarezza il passar degli anni, Margherita che dopo parecchie vicissitudini ha raggiunto la serenità grazie alle discipline orientali e il giovane Manuel, dedito al culto del suo corpo. Con loro agiscono i membri del collettivo Berit, Johanna, Sean e appunto Bastian, impegnati in una serie di monologhi a cuore aperto: quest’ultimo ci parla del complesso rapporto con il suo compagno.

Il collettivo è stato fondato nel 1994 da un gruppo di artisti attivi tra Nottingham e Berlino che si oppongono al modello convenzionale della rappresentazione e di un’esposizione puramente testuale, facendo uso costante di videocamere e riprese in diretta per moltiplicare la percezione dei loro interventi. Il loro portavoce è Simon Will: “Siamo in sette e non abbiamo un capo, lo siamo tutti. Il nostro intento è quello di combattere la solitudine insieme: c’interroghiamo su cosa rappresenti l’immagine riprodotta e le nostre creazioni cambiano di città in città, ma la sostante è l’interazione con il pubblico.”

Medea’s Children – ph. Andrea Avezzù

La relazione tra un maturo europeo e un giovane arabo è una delle cause della drammatica decisione della moglie di quest’ultimo di sopprimere i loro cinque figli. Succede in Medea’s Children, l’ultimo lavoro del regista teatrale e cinematografico, scrittore e direttore artistico svizzero Milo Rau, da noi particolarmente amato.

Rau ci ha abituati a veder trattare tematiche scomode e spinose, quali l’omofobia (il ragazzo ucciso in Belgio da un gruppo di coetanei in La répétition) o la pedofilia associata ai delitti del mostro di Marcinelle Marc Dutroux (Five Easy Pieces). Questo è il terzo capitolo (dopo Oreste a Mosul e Antigone in Amazzonia) della Trilogia dedicata alle tragedie greche mescolate agli eventi della cronaca sociale e politica.

Come accadeva nei due tasselli precedenti, al mito di Euripide s’intreccia la cronaca che nel 2007 riportò l’uccisione di tutti i suoi bambini da parte di una donna belga, Geneviève Lhermitte, mentre il marito stava rientrando dal Marocco dove era andato a far visita alla famiglia d’origine. Oltre alla solitudine, la causa scatenante della terribile decisione era stata attribuita alla gelosia per il rapporto che l’uomo da quando era adolescente intratteneva con un medico belga, diventato negli anni suo mentore e benefattore. Ripetendo la stessa felice scelta fatta per Five Easy Pieces, il regista fa interpretare tutti i personaggi tranne uno a ragazzini e ragazzine o al più adolescenti non professionisti.

“Nelle tragedie greche – afferma Rau – i bambini sono sempre muti, ecco perché ho deciso di dare loro la parola, come sempre in modo radicale. Lo spettacolo dà voce alle loro opinioni su temi da grandi, come amore, separazione e morire. I bambini hanno pensieri molto cupi riguardo al futuro ma allo stesso tempo sono convinti che la loro generazione riuscirà ancora a farcela.”  

I giovanissimi interpreti si calano nei ruoli sia degli adulti che dei figli sacrificati, oltre alle loro personali riflessioni sulla vicenda e sul mito. Il regista come d’abitudine usa la combinazione d’immagini dal vivo che la videocamera riproduce dall’azione in palcoscenico con altre preregistrate oltre a spezzoni video con attori professionisti come Peter Seynaeve che è anche in scena e muove i fili della rappresentazione.

L’impatto è davvero emozionante, nonostante la crudezza di alcuni momenti in cui la violenza sui corpi innocenti e il sangue vengano mostrati senza autocensure,ma le considerazioni – talvolta spassose – dei piccoli interpreti sono godibili e spezzano la tensione. Ci auguriamo che città come Milano, Roma o Napoli ripropongano per un pubblico più vasto questo capolavoro.

Sleeping Beauty – ph. Andrea Avezzù

Caterina Balucani con Sleeping Beauty ha vinto nell’edizione 2023 la Biennale College (istituita negli ultimi anni per valorizzare i giovani talenti) per drammaturghi under 40 e ha affidato il suo testo alla regia di Fabrizio Arcuri. È palese il riferimento alla fiaba tradizionale europea però qui la protagonista si sdoppia in quattro (due attori e due attrici) che in brevi monologhi o in coro raccontano la loro storia, accumunata dalla ferita che portano sulla mano.

Non sono solo le ragazze a cercare il principe azzurro bensì anche un aitante giovanotto che coinvolge uno spettatore a caso per fargli da spalla mentre gli dichiara, chiamandolo Luca come il suo agognato principe, tutto il suo amore, sentimento che verrà crudelmente respinto solo perché lui non è una femmina. Generosa e accattivante la prova degli attori e attrici (Vincenzo Crea, Andrea Palma, Dajana Roncione e Maria Roveran) che all’inizio dello spettacolo scaldano la sala invitando il pubblico a unirsi a loro in un ballo liberatorio.

Crisalidi – ph. Andrea Avezzù

Altro vincitore del bando della Biennale College registi under 35 dello scorso anno, Ciro Gallorano ha presentato Crisalidi, da progetto diventato ora spettacolo o meglio performance per due attrici, Sara Bonci e Andreyna De La Soledad che, senza mai dire una parola e all’interno di una scena che si apre e chiude a libro e che contiene una scrivania, una sedia e una vasca da bagno, danno vita a una serie di azioni spesso ricche di simboli.

Sempre nude, potrebbero essere due amanti o due sorelle. Nel finale d’impatto visivo ne vediamo una raggomitolata in una teca di vetro con l’altra accovacciata sopra, prima che una colata di cenere le ricopra completamente. Crisalidi, in natura lo stadio larvale delle farfalle, ci parla di uno spazio mentale dove è in corso una transizione, un passaggio da uno stato a un altro di cui siamo invitati a seguire (o spiare?) le fasi.

L’autore e regista Gallorano si è ispirato alla vita e alle opere della fotografa Francesca Woodmann (1959-1981) che, oltre alle prime lettere del cognome, con Virginia Woolf ha avuto in comune la stessa scelta del suicidio, gettandosi da un palazzo di New York a soli 22 anni, dando corpo a quanto lui immagina popolasse la mente delle due donne.    

Infine ecco il tema della disabilità e del lesbismo trattato dal collettivo Back To Back Theatre, vincitore del Leone d’Oro. Fondato nel 1997 nello stato australiano di Victoria dagli artisti Simon Laherty, Sarah Mainwaring e Scott Prince, tutti affetti da disabilità, a cui nel 1999 si è aggiunto il normodotato Bruce Gladwin che ricopre il ruolo di regista e direttore artistico.

La sede della compagnia, che ha ricevuto 22 premi nazionali e internazionali, è nella città di Geelong la cui amministrazione sostiene i loro progetti. Si sono fatti conoscere nel 2005 con Small Metal Objects, indagine teatrale su come la società neghi il rispetto alle persone che considera improduttive, mentre Ganesh Against Third Reich del 2011 ruota intorno alle mefitiche idee di eugenetica e nazismo. È ora in fase di preparazione Multiple Bad Things sulle tensioni razziali, politiche e di genere tra lavoratori.

Nel nostro incontro con la compagnia Scott, 37 anni, autistico, ha dichiarato: “Vogliamo creare opere partendo dalle nostre menti e dai nostri cuori, proporre un teatro fedele a noi stessi, fare quel tipo di teatro che vorremmo vedere, qualcosa che ci faccia divertire. Back To Back ha un’estetica punk: provo gioia a vedere gli occhi del pubblico illuminarsi. Potenza, cura, responsabilità, alterità e speranza sono i fili presenti nei nostri lavori.” La prerogativa di questo ensemble, a differenza di altri in cui i disabili sono solo gli interpreti/strumento della poetica dell’autore o regista, qui sono loro stessi il motore prima dei progetti e poi delle creazioni. Aggiunge Bruce: “Come regista punto sull’affidamento all’inconscio e m’interessa la singolarità degli attori offrendo loro opportunità di lavoro. Sin dall’inizio la compagnia (che amo perché è anti-sistema ed è l’opposto di come funziona la maggior parte degli ensemble artistici) li ha considerati una risorsa.”

Food Court – ph. Jeff Busby

A Venezia hanno portato Food Court (così vengono chiamati gli spazi dedicati alla ristorazione nei centri commerciali), una produzione del 2008 il cui tema è il bullismo tra disabili. In scena vediamo le umiliazioni, le angherie e la feroce violenza fisica a cui due ragazze con sindrome di down, unite da un rapporto lesbico, sottopongono senza motivo una donna muta e spastica. Quando la poveretta è a terra e quasi in fin di vita, un ragazzo obeso le si avvicina per avere con lei un rapporto sessuale senza peraltro riuscirci, prendendo la scusa che dopotutto non è il suo tipo. A questo punto, a sorpresa, la bullizzata impugna il microfono e recita un brano della Tempesta scespiriana.

Per Bruce “Food Court è un lavoro sulla seduzione, la costrizione, il potere, le intenzioni malvage e la resilienza. Per tanto tempo è sembrato che le persone con disabilità giocassero a fare le vittime: volevamo creare un’opera in cui un attore con disabilità interpretasse un personaggio capace di fare del male.”

In scena Sarah Goninon e Tamika Simpson, entrambe in costume da bagno luminescente, sono le cattivissime amanti, Sarah Mainwaring è il bersaglio che ci muove a compassione, Scott Price il sessuomane e Simon Laherty il pavido testimone, tutte e tutti davvero efficaci nel restituirci una fortissima emozione. Ottimo il supporto musicale del trio The Necks e gli effetti visivi di Mark Cuthbertson. Appuntamento al prossimo anno, assai curiosi di sapere le scelte che opererà il nuovo direttore Willem Dafoe.