È uscito nelle librerie italiane “Il mio gatto Jugoslavia”, il primo romanzo di Pajtim Statovci, autore gay di origini kosovare-albanesi che scrive in finlandese, di cui la casa editrice Sellerio aveva già pubblicato i suoi due libri successivi. La nostra recensione alla sua opera e un’intervista speciale molto LGBT.
Stampato nel 2024 da Edizioni Sellerio, Il mio gatto Jugoslavia, pubblicato in origine nel 2014, è il primo romanzo (però terzo in ordine di uscita in Italia) di Pajtim Statovci, autore gay nato in Kosovo da dove la famiglia di etnia albanese fuggì nel 1992 per rifugiarsi in Finlandia, a causa della cosiddetta “guerra dei Balcani”. Il conflitto che si svolse dal 1991 al 2001 fu uno dei conflitti più complessi e sanguinosi che hanno interessato l’Europa dopo la Seconda guerra mondiale.
Raccontata senza remora, la guerra e le sue molteplici conseguenze sono un filo rosso che unisce la produzione letteraria di Statovci composta anche da Le transizioni (2016) in originale Tiranan Sydä (Il cuore di Tirana) e Gli invisibili (2019) in originale Bolla, nome di un serpente demoniaco mitologico albanese, ma parola che può significare anche “straniero”.
Nei tre romanzi la struttura narrativa è simile: vite raccontate in prima persona; piani temporali che si avvicendano tra presente e passato creando rimandi alterni e un ritmo sincopato; tradizioni secolari ed eteropatriarcali tossiche; la paura e la fuga dal proprio paese; lo spaesamento totale nella nazione di accoglienza che ti guarda con sospetto, ostilità e stigma per cui crei barriere difensive; lacerazioni intergenerazionali tra genitori e figli con i primi che a un certo punto si sentono inferiori ai secondi; chi si è o chi si diventa rispetto al luogo dove ci si trova e la pressione che si subisce.
L’identità intersezionale si crea dalla condizione di appartenenze multiple, di solito minoritarie, che possono creare forte caos interno a causa del sovrapporsi di discriminazioni multiple (essere donna, etnicizzata e lesbica per fare un esempio). L’autore ha il talento prodigioso, direi persino sovrumano, di farci capire ogni sfumatura delle emozioni dei suoi personaggi, ogni ragione dietro alle loro azioni anche molto violente, la loro tenace disperazione e la loro rara gioia, il loro modo di amare, di odiare, di odiarsi.
Anche se non è affatto necessario vi consiglio di leggere i libri nell’ordine di uscita originale. Nei primi due le voci narranti principali sono un uomo gay e una persona che si appropria della fluidità di genere, ma è il terzo volume l’unico che personalmente io considero come un libro a tema omosessuale a tutto tondo, perché l’amore impossibile e disperato tra un albanese e un serbo, che si perdono di vista poco dopo essersi conosciuti e frequentati e che si ritroveranno dopo anni, è il fulcro (romanticissimo) intorno a cui tutto ruota.
Poiché il conflitto in Kosovo è una colonna portante nei tre romanzi, e soprattutto considerando che questi eventi sono oramai passati nel dimenticatoio pur se accaddero di fronte a noi dall’altra parte del mare Adriatico, aggiungo un minuscolo riassunto di storia prima di parlare più in dettaglio dei libri.
La Jugoslavia era una federazione di sei repubbliche socialiste e due provincie autonome, che dopo la Seconda guerra mondiale il maresciallo Tito aveva tenuto insieme per quasi quarant’anni in un gioco di equilibri tra varie etnie e vari nazionalismi, quattro lingue ufficiali più altre minoritarie, due alfabeti, tre religioni: cattolica, ortodossa e musulmana.
Lo status quo fu mantenuto anche dopo la sua morte che avvenne nel 1980, ma nel 1991 le spinte indipendentiste che partirono a nord dalla Slovenia e dalla Croazia spalancarono un vaso di Pandora e l’inizio delle guerre civili. Le lotte si espansero a macchia d’olio e a sud nel Kosovo la faida coinvolse la minoranza serba (supportata da Belgrado) contro la maggioranza albanese.
Gli scontri che porteranno alla dissoluzione della nazione unitaria si caratterizzarono per la brutalità e le atrocità commesse da tutte le parti coinvolte e videro massacri, pulizie etniche, stupri di massa, distruzione di villaggi e città, traffici di donne e di organi, migliaia di morti e milioni di sfollati, temi che si trovano senza filtri in tutta la loro crudeltà nei lavori di Pajtim Statovci.
Il mio gatto Jugoslavia inizia con tocchi surreali da realismo magico, perché Bekim incontra in un locale gay un gatto parlante, razzista e omofobico e se lo porta a casa come coinquilino per un po’… Di seguito inizia la storia di sua madre Emine, una bella ragazza di una famiglia modesta che vive in piccolo villaggio del Kosovo negli anni ’80 del secolo scorso.
Chiesta in matrimonio per capriccio da Bajram, un uomo che praticamente non conosce ma che per lei rappresenta la possibilità di un cambiamento verso un’esistenza migliore, seguiamo tutte le fasi di preparazione alla cerimonia e alla prima notte di nozze. Il suo sogno d’amore diventerà presto un incubo a causa della violenza fisica e psicologica del marito, ma il suo ruolo prestabilito e tramandato di moglie e madre è di sopportare, obbedire, servire, occuparsi dei figli e tacere.
L’arrivo della guerra e la fuga di tutta la famiglia verso la Finlandia sconvolge tutto, e un pezzo alla volta tutto andrà in frantumi. Ognuno si ricostruirà a fatica una vita da rifugiato e anche Bekim, omosessuale e “integrato” perché cresciuto là da piccolo, resta comunque un “immigrato”. Un giorno parte alla ricerca delle sue origini in Kosovo, e nel viaggio di ritorno in aereo conoscerà e si metterà insieme a un uomo finlandese. Non sveliamo di più.
Più complesso è raccontare Le transizioni, dove nel primo capitolo conosciamo Bujar a ventidue anni che nel 1998 vive a Roma e ci dice che a volte si comporta come immagina facciano gli uomini e a volte decide di essere una ragazza che si comporta come le pare, e dice che può essere francese o tedesco o greca ma albanese mai!
Vivrà così esistenze e relazioni affettive diverse con cambi di nome, di identità nazionale e di genere in varie città da dove ricomincia sempre da zero. Oltre che a Roma ascolteremo la sua voce a Berlino, Madrid, New York e Helsinki. Nell’estate del 1990 però ha solo 14 anni e vive a Tirana con il padre originario del Kosovo, la madre e la sorella e ha come vicino Agim, il suo migliore amico, che deciderà che loro due scapperanno da immigrati clandestini verso l’Italia su una piccola imbarcazione.
Fuggiti da casa ed esaltati per la libertà che si è spalancata davanti a loro, prima di riuscire a lasciare l’Albania dovranno imparare a vivere alla giornata per le strade di una nazione allo sfascio e sbando dopo la fine della dittatura comunista autarchica di Enver Hoxha che congelò la nazione per decenni, e affronteranno soprusi allucinanti. Bujar dopo questo suo giro del pianeta tornerà a casa e si chiuderà il cerchio con rivelazioni che non riveliamo.
Si dice che traduire est un peu trahir, tradurre è un po’ tradire, ma aver molto cambiato due dei titoli originali dei romanzi non toglie nulla alla bellezza e all’espressività della scrittura di Statovci. Gli invisibili, in effetti, rende appieno la condizione in cui l’albanese Arsim e il serbo Miloš, studenti in differenti facoltà all’università di Pristina, sono costretti a concepire la loro omosessualità e vivere la loro storia d’amore, un colpo di fulmine che scoppia quando s’incontrano la prima volta per caso una mattina in un bar.
Una relazione travolgente perché vissuta il breve tempo di un’estate e solo nella fase iniziale, quella della passione fusionale e della felicità accecante, che diventerà un ricordo mitizzato e indelebile che accompagnerà entrambi per dieci anni. La guerra li dividerà: Miloš diventerà medico e si arruolerà nell’esercito serbo mentre Arsim, sposato con la sottomessa Ajshe che ha partorito il primo figlio, si rifugerà all’estero. Cosa ne sarebbe stato di loro o avrebbe potuto essere se la Storia non avesse deciso per loro?
Anni dopo Arsim si ritroverà in prigione accusato di pedofilia, perché imbrogliato da un quattordicenne che in una chat per incontri si era spacciato per diciassettenne e gli ha fatto sesso orale in macchina. Rimpatriato da solo alla fine della pena, sarà costretto nuovamente a ricominciare la vita in una patria che non riconosce più: “(…) nel paese sono arrivate comunità̀ di cinesi per aprire qui i loro discount, e mi pare quasi di vedere lo sconcerto sulla faccia di Ajshe: che diavolo ci fanno i cinesi in Kosovo?”. Miloš, invece, affiderà alle pagine di un diario sia i suoi sentimenti sia gli orrori che affronta sui campi di battaglia, e ci rivelerà come e perché è diventato un dottore. Taccio su come il destino li farà ritrovare.
Dopo aver letto i tre libri mi è venuto da chiedermi dove si sia fermata l’eco dei moti di Stonewall, perché in tutto il romanzo la parola gay non è mai scritta. È comprensibile che per le culture da cui provengono i due protagonisti amarsi tra uomini con il cuore è inconcepibile, evidentemente non irrealizzabile, ci siamo passati anche noi fino a pochi decenni fa.
Mi si può obiettare che usare questo termine in un contesto contaminato anche dalla ideologia sovietica in ambito sessuale e sociale può essere una forzatura e non sto puntando un dito contro l’autore quanto verso noi persone LGBT di cultura occidentale, oramai obnubilate dai privilegi conquistati, al punto da non capire nemmeno più chi li sfrutta buttandoci fumo negli occhi.
È anche opportuno capire cosa e come vive una famiglia di rifugiati politici di area mediterranea accolti in un paese scandinavo. La nostra recensione a Opponent, il secondo film del regista iraniano in esilio Milad Alami, candidato dalla Svezia al premio Oscar come miglior film straniero, presentato al 37° MiX Festival Internazionale di Cinema LGBTQ+ e Cultura Queer di Milano, vi darà qualche idea in merito.
Il futuro è qualcosa che costruiamo da un presente che ci pone limiti in apparenza insormontabili oppure che arriva addosso cancellando tutto come una valanga? Come si trova la forza di modificare la propria vita, di aprire brecce nei muri che ci circondano e in apparenza impediscono di cambiare lo stato delle cose? Cos’è l’identità? È immutabile, si autodetermina, è determinata da biologia, luogo, momento di nascita? Si stratifica con il tempo come una formazione rocciosa che è friabile o solida o le due cose insieme? A chi legge la possibilità di sviscerare ogni interpretazione.
Abbiamo intervistato Pajtim Statovci a Milano, dove ha presentato Il mio gatto Jugoslavia alla 11a edizione di “Lecite//Visioni”, rassegna di teatro LGBT organizzata dal Teatro Filodrammatici.
Ti posso definire un autore gay, con un significato politico di militanza, o preferisci essere un autore che è omosessuale e ha descritto personaggi queer molto autentici?
Per essere onesto non ho realmente una preferenza al riguardo all’essere chiamato in qualche modo, i miei libri parlano di rifiuto ad autodeterminarsi e a spiegarsi e penso che pongano la domanda: cosa succede se non sei abbastanza forte o abbastanza pronto o abbastanza capace di prendere in mano te stesso o la tua sessualità? Sento che adesso viviamo in un’epoca in cui abbiamo bisogno di sapere dove si collocano gli altri in termini di sessualità o identità per esempio, però resta aperta la questione se ne traiamo beneficio da questo. I miei personaggi sono coscienti di questo: non sanno chi sono, e per me non sono tenuti a saperlo.
Mi sembra che la nostra comunità e le nostre conquiste non abbiano raggiunto Bekim, Bujar, Ajar. Hanno incontrato altri modi di vivere però non si vivono meglio. È un’interpretazione plausibile?
È un lusso potersi esprimere come si vuole abbastanza liberamente, e per esempio fare coming out, e nel mondo occidentale questo lusso c’è in abbondanza. La situazione non è uguale dappertutto nel mondo e io volevo raffigurare questo nei miei romanzi. Soprattutto in Gli invisibili, che è un libro molto claustrofobico, Arsim e Miloš non sono provvisti di questo tuo linguaggio, non hanno parole per descrivere cosa hanno dentro, sono costantemente in questa fantasia del loro amore. Vorrebbero avere il lusso della scelta, ma non c’è una società che li supporta, non ci sono esempi da nessuna parte.
Se posso ammetterlo Gli invisibili è stato il più difficile da scrivere, perché di base è una storia di vergogna e paura che pone anche la domanda di come e quanto a lungo puoi vivere di un bel ricordo. I personaggi principali hanno un breve momento di felicità, solo un’estate, e ci ritornano ripetutamente perché è la luce della loro vita. È nel passato e fino a dove ti può portare? Arsim arriva all’inferno e torna indietro, ma vive nella luce di questo ricordo.
Nei tuoi romanzi l’Albania (e la sua cultura) non ne esce bene, però senza Skanderberg nel xv secolo, che bloccò l’invasione ottomana a quest’ora l’Europa non sarebbe com’è adesso. Dato che si parla di body shaming mi chiedo se si possa anche parlare di “culture shaming”…
Culture shaming è un’espressione che qui va molto bene usare. Io sono stato oggetto di culture shaming tutta la mia vita e la cosa peggiore è che avevo iniziato a crederci agendo di conseguenza: avevo preso la tendenza a mentire sulla mia nazione di origine anche se non in modo esteso come in Le transizioni. Era più facile e mi sentivo più sicuro e a mio agio se dicevo di essere italiano.
Quando uscì Il mio gatto Jugoslavia in Finlandia feci un’intera intervista su come un’intera nazione e un’intera cultura possono soffrire di bassa autostima e di come gli eventi storici possono avere un impatto su come tu puoi sentire orgoglio verso il paese da dove provieni. Io personalmente da bambino non sono mai riuscito a essere orgoglioso delle mie origini, e ciò si è fissato nell’universo letterario che ho creato. Ho preso tutto il dolore e la rabbia che mi hanno turbato nella vita, essere e sentirmi inferiore agli altri, doversi spiegare e sentire la pressione a elaborare la propria esperienza, la violazione della privacy mia e della mia famiglia. Con mia grande soddisfazione e sollievo i lettori hanno risposto comprendendo l’umiliazione e la delusione che ho provato. Alla fine ho avuto la mia vendetta (ride).
Un serpente appare in ogni romanzo, è simbolico e cosa rappresenta?
I serpenti spaventano le persone, e come vede la gente i migranti? Fanno paura. Il serpente è anche una metafora di come ai richiedenti asilo è concesso uno spazio preciso in cui vivere, come quando si mette un serpente in un terrario. Se il serpente esce dalla sua gabbia diventa qualcosa di malvagio e pericoloso, come uno straniero. Gli animali non giudicano le persone.
Si ringraziano Mauro Muscio della libreria Antigone di Milano ed Edizioni Sellerio per il supporto ricevuto