Calabria e Sicilia sono state lo scenario di due importanti festival estivi: a Castrovillari Primavera dei Teatri e a Siracusa il ciclo delle tragedie e commedie al teatro Greco. Nel primo un mix di nuova drammaturgia, teatro civile e tematiche LGBT. Nel secondo il debutto di “La Pace” di Aristofane, messa in scena dopo cento anni e diretta da Daniele Salvo che ci parla del suo incontro artistico con Genet e Pasolini e dei suoi maestri Ronconi e Proietti.
Tornato in calendario all’inizio dell’estate dopo la parentesi autunnale del 2022, il Festival Primavera dei Teatri ha di nuovo animato la cittadina di Castrovillari, ai piedi del monte Pollino. La XXIII edizione si è confermata ideale trampolino di lancio per artisti, compagnie e spettacoli attivi nel campo nella ricerca, della nuova drammaturgia e della scena contemporanea. I direttori artistici Saverio La Ruina, Dario De Luca e Settimio Pisano hanno varato un programma che comprendeva 16 novità assolute, 4 anteprime, 4 coproduzioni e 3 progetti internazionali in cui si sono affrontate tematiche legate alle problematiche sociali, alla diversità e all’impegno civile.
Tra i primi a scendere in campo, di nuovo riunite dopo La fabbrica degli stronzi, le compagnie Maniaci d’Amore e Kronoteatro con Big in Korea, un tuffo nel mondo del calcio ma all’insegna della leggerezza, dove la strana coppia di un allenatore zoppo e un giocatore non più giovane sognano di emigrare in quel lontano lembo d’Estremo oriente per iniziare una promettente carriera e la vita sempre desiderata.
Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi sono legati da oltre dieci anni da un felice sodalizio artistico, e il loro ultimo lavoro Umanità nuova. Cronaca di una mancata rivoluzione prende spunto dai Moti di Reggio Calabria del 1970 in cui durante una manifestazione sindacale le forze dell’ordine uccisero cinque civili inermi, per poi approdare alla generazione dei ventenni del ’68, gli stessi che hanno prima lottato e poi perso, per giunta strumentalizzati dal potere.
Nell’ambito delle tematiche LGBT, invece, ricordiamo i diversi lavori (presentati anche al festival Lecite Visioni di Milano) della compagnia Vucciria Teatro, di cui il più noto è Io, mai niente con nessuno avevo fatto ancora in scena. Federica Carruba Toscano, tra i fondatori del gruppo, ha proposto Penelope, drammaturgia e regia di Martina Badiluzzi, dove del personaggio dell’Odissea si sottolinea la resilienza e la determinazione in chiave femminista.
Rimaniamo nell’ambito del poema omerico però ambientato ai giorni nostri e in LidOdissea ritroviamo la famiglia composta da Ulisse, Penelope e Telemaco in vacanza al mare. Il primo è un uomo inquieto, insoddisfatto della monotona routine matrimoniale, che s’improvvisa allora galante playboy, prima attratto dalla ninfetta Nausicaa e poi vittima delle arti seduttive dalla maga Circe che si diletta a trasformare gli uomini in maiali. A cimentarsi con questa originale rivisitazione sono Gianfranco Berardi e Gabriella Casolari, autori e registi (con la collaborazione di César Brie) e anche in scena insieme a Ludovico D’Agostino (Telemaco) e alla cantante Silvia Zaru, una sorta di aedo non vedente. In sintonia con i loro lavori precedenti come I figli della frettolosa e Amleto Take Away, anche questa ci sembra un’ulteriore riflessione sui conflitti interiori dell’uomo contemporaneo, i suoi tormenti esistenziali, il timore di essere schiacciati dalla competizione che ci vede in perenne tensione. Nella prossima stagione sarà in scena al teatro Litta di Milano dal 23 novembre al 3 dicembre.
È noto che le favole facciano parte di un patrimonio comune che fa riferimento al nostro inconscio e ai più genuini moti dell’animo. Volendo giustamente attingere alle fonti calabresi della sua terra, Dario De Luca si è rivolto al prezioso lavoro di Letterio Di Francia, nato a Palmi e vissuto tra fine Ottocento e inizi del Novecento, massimo studioso della novella italiana, focalizzandosi sulla storia di Re Pepe, riscritta da Marcello D’Alessandro. Nonostante il titolo, il protagonista non è il sovrano bensì sua figlia che, indispettita dalle pressanti richieste del padre affinché si trovi un marito, un bel giorno decide di crearselo da sé e comincia letteralmente a impastarlo con farina e zucchero. La creatura non ha però il dono della parola ma lei non si perde d’animo: gli ficca in bocca un peperoncino rosso e lo fa parlare.
Per il suo affascinante melologo Re pipuzzu fattu a manu, Dario De Luca propone tre diversi finali che il pubblico potrà votare, decretando quello definitivo. Con la sua efficacissima performance, De Luca dà voce, variandone il timbro, a tutti i personaggi, rendendoci partecipi delle loro vicende, stimolando la nostra fantasia e arrivando a farceli immaginare come un rutilante film a colori, supportato dallo strumentista Gianfranco De Franco che crea una molteplice gamma di suoni con tastiere, campana tibetana, flauto traverso, theramin e altri dispositivi che si sposano al meglio con le diverse fasi della favola. In scena il 26 luglio a Palazzo Santa Chiara di Tropea.
Dal nostro sud attraversiamo l’oceano e sbarchiamo a New York, dove si colloca Città sola, tratto dall’omonimo libro della scrittrice inglese Olivia Laing, tradotto da Francesca Mastruzzo, adattato da Fabrizio Sinisi e diretto da Alessandro Ferroni e Lisa Ferlazzo Natoli, quest’ultima anche in scena. Due componenti dell’ensemble La Casa d’Argilla di cui abbiamo molto apprezzato When the Rain Stops Falling e il recente Anatomia di un suicidio. Laing ci conduce per mano attraverso le strade della metropoli, osservando i grattacieli le cui finestre, buie o illuminate, paiono celle che nascondono solitudini, rituali e segreti. Il libro si divide in sette capitoli, ognuno dei quali è dedicato a più o meno celebri artisti, la maggior parte omosessuali, che hanno vissuto e celebrato la Grande Mela.
Tra loro Andy Warhol che di sé diceva di “essere sposato con un registratore” ed era legato al pittore e graffitista Jean-Michel Basquiat in una tormentata storia d’amore; Edward Hopper di cui si ricorda il sofferto coming out, le violenze subite da parte degli omofobi e il sesso promiscuo in Central Park in un tempo in cui non era ancora comparso lo spettro dell’AIDS che poi è sopraggiunto e ha fatto scempio negli anni Ottanta. Ne fu vittima anche il cantante pop tedesco Klaus Nomi che in America si era trasferito con alterne fortune, conosciuto nell’ambiente underground e notato da David Bowie che nel 1978 lo portò come corista al Saturday Night Live, programma culto della rete TV NBC. Ferlazzo Natoli alterna lettura e recitazione, circondata da suggestive immagini a colori forti (come quella di Maria Callas) o in bianco e nero e con il corredo musicale che spazia da Paint It Black a Too Many Friends, capaci di ricreare l’atmosfera e il fermento culturale di quegli anni irripetibili.
Torniamo nel nostro paese e precisamente a Palermo, teatro nel 1992 di due terribili omicidi di mafia, quelli dei giudici Giovanni Falcone e Piero Borsellino di cui abbiamo da poco celebrato gli anniversari della morte. Ce li rammenta, sebbene da un’angolazione del tutto inedita, l’attore e regista Giuseppe Provinzano in Storie di noi, testo di Beatrice Monroy. Testimoni indiretti di quei due funesti pomeriggi sono cittadini comuni, palermitani come Tony, uomo del popolo, che si fa portavoce e ripercorre in 57 minuti i 57 giorni intercorsi tra la strage di Capaci e quella di via d’Amelio, raccontandoci di Giusy, fresca sposa il cui padre intima il silenzio su quanto accaduto per non turbare il banchetto nuziale, di chi invece si trova in spiaggia a Mondello oppure dei ragazzini impegnati in una partita di pallone negli stessi istanti degli attentati. Un bell’esempio di teatro civile di cui i giovani delle ultime generazioni dovrebbero fruire.
Da Palermo a Napoli per un’originale rivisitazione di Giorni felici di Samuel Beckett a opera del collettivo Putéca Celidònia che la intitola Felicissima jurnata, drammaturgia e regia di Emanuele D’Errico e con Antonella Morea splendida protagonista. Al posto del consueto monticello di sabbia, una sorta di altissima piramide domina la scena e alla sua sommità è assisa l’attrice di cui scorgiamo solo la testa. La parte inferiore ci mostra invece l’interno di un tipico basso del quartiere Sanità, dove si muove il silente marito intento alle faccende domestiche. La Winnie partenopea si rivolge a lui e al figlio Lello prodiga di consigli, raccomandazioni ma anche rimbrotti. A farle da contraltare sono le voci registrate degli abitanti del quartiere, Assunta, Angela e Pasqualotto che con schiettezza e semplicità ci mettono a parte della loro quotidianità. Un affresco potente valorizzato dalla lingua napoletana che non ci ha fatto rimpiangere le regie di Giorgio Strehler con Giulia Lazzarini e di Peter Brook con Natasha Parry.
Da sotto il Vesuvio torniamo in Calabria e proprio a Castrovillari. Com’era ieri e com’è oggi ce lo racconta Saverio La Ruina in Via del Popolo, avvincente monologo da lui scritto, diretto e interpretato. Saverio ci era arrivato a sei anni con la famiglia, trasferitasi da un paesino di montagna dal quale è originaria e dove il babbo aveva aperto un bar. Alla maniera di Alla ricerca del tempo perduto, ci conduce per mano a conoscere i tanti personaggi che hanno accompagnato la sua infanzia, adolescenza e maturità: un’indimenticabile galleria di caratteri alcuni dei quali sono effigiati nelle lapidi del cimitero. Un altro protagonista della pièce è il tempo che ha radicalmente mutato l’aspetto della strada del titolo, dove sono scomparsi tanti negozi al pari dei loro titolari, ognuno con una sua caratteristica fisica o caratteriale, tanto che per percorrerne i 200 metri prima ci si impiegava 20 minuti mentre ora ne bastano 2. Un piccolo gioiello che ha meritato una lunga tournée che ancora prosegue con immutato successo. In programma il 14/7 al Comunale di Treviso e 15/7 all’Anfiteatro del Leccio di Capalbio.
Tra le numerose proposte della danza contemporanea, citiamo almeno Beat Forward, creazione di Igor x Moreno (Igor Urzelai, basco, e Moreno Solinas, sardo, uniti nell’arte e nella vita) di cui su queste pagine lo scorso anno abbiamo scritto del loro Idiot-Syncrasy del quale sono al contempo coreografi e danzatori), nato dalla loro collaborazione con il collettivo Mine di Francesco Saverio Cavaliere, Roberta Racis, Fabio Novembtini, Siro Guglielmi e Silvia Sisto che in una prima parte molto sensuale stimolano le proprie zone erogene per darsi piacere o mimano immaginarie pratiche sportive senza però mai avvinarsi l’uno all’altra, mentre nella seconda i corpi prendono finalmente contatto, il tutto immerso nella colonna sonora della musica tecno. Lo si potrà vedere anche nell’ambito del festival Kilowatt il 20 luglio a Cortona.
Dalla Calabria attraversiamo lo Stretto e approdiamo in Sicilia. Per la 58a stagione delle tragedie e commedie al teatro Greco di Siracusa, l’INDA (Istituto Nazionale del Dramma Antico) ha varato un variegato programma che è stato inaugurato dal Prometeo incatenato di Eschilo per la regia di Leo Muscato con Alessandro Albertin protagonista nel ruolo del titolo, a seguire Medea di Euripide, firmata da Federico Tiezzi con Laura Marinoni e si è chiuso con Ulisse, l’ultima Odissea, tratto da Omero e diretto da Giuliano Peparini con Giuseppe Sartori, già Edipo lo scorso anno nello stesso teatro. La vera novità di questa edizione è stata la messa in scena di La pace di Aristofane che da oltre cento anni non era rappresentata. Ascritta come commedia, ha tuttavia alcune tematiche che non sono affatto leggere, soprattutto in questo momento storico in cui soffiano venti di guerra.
L’autore fa riferimento a quella del Peloponneso combattuta tra Atene e Sparta e la compone quando nel 421 a.C. con la tregua di Nicea sembrano aprirsi prospettive per la sua fine. Il vignaiolo Trigeo, preoccupato per il cattivo andamento degli affari dopo che i contadini sono partiti per il fronte, decide di salire in cielo per conferire con gli dei e caldeggiare il ritorno della Pace, imprigionata dal dio della guerra Pòlemos in un’oscura e profonda caverna. Serve un mezzo di locomozione e ne sceglie uno davvero inconsueto: non il cavallo alato Pegaso ma un gigantesco scarabeo stercorario che i suoi servi sono costretti ad alimentare impastando enormi palle di feci, lanciandole nella gabbia in cui è rinchiuso. Una volta liberatolo, la spedizione può aver inizio e l’Olimpo viene raggiunto, ma grande è il disappunto di Trigeo quando si rende conto che la dimora è deserta, dato che gli dei, esacerbati per il protrarsi delle ostilità, per protesta se sono andati, lasciando solo Hermes a custodire le masserizie. Da questi apprende che Pòlemos ha in animo di triturare con un mortaio le città della Grecia, ma gli mancano i pestelli che dovrà fabbricarsi da solo.
Bisogna allora sfruttare quel tempo prezioso e il vignaiolo implora tutti i greci di far uscire la Pace dalla grotta. L’impresa è ardua ma gli abitanti dell’Ellade accettano e con immani sforzi e grosse funi alla fine è coronata dal successo. Emerge la dea Eirene, accolta in tripudio dal popolo ma avversata dai mercanti di armi che vedranno precipitare le vendite. Lei rivolge un forte e accorato appello a cui fa da contraltare l’indovino farlocco Ierocle che tenta di spiegare le ragioni del perdurare della guerra. Trigeo ha un doppio motivo per festeggiare: i suoi villici fanno ritorno ai campi e lui come souvenir del viaggio ha portato con sé due fanciulle, Opora, dea delle messi, e Theoria, dea della festa, e ha deciso d’impalmare la prima. Si allestisce così un sontuoso banchetto di nozze con libagioni e leccornie dalle quali è escluso Ierocle che, dopo aver cercato di sottrarne alcune, viene preso a bastonate.
Ad assumersi il non facile compito di mettere in scena La pace è stato Daniele Salvo che nella sua carriera, oltre alle eccellenti prove come attore, aveva già affrontato Sofocle, Eschilo ed Euripide e proprio a Siracusa nel 2002 era stato assistente di Luca Ronconi per l’allestimento delle Rane dello stesso Aristofane. La commedia presenta, infatti, alcune criticità (il lungo intermezzo dei festeggiamenti e più di un finale) che il regista ha saputo smussare mescolando i generi e lavorando benissimo sulle scene corali con l’inserimento di canti e balli che spesso assumono le caratteristiche di un pregevole musical. Non mancano riferimenti alla cronaca e felici idee di regia come l’affidare a Eirene il monologo di Giocasta tratto da Le Fenicie di Euripide, veemente monito affinché gli uomini non si facciano accecare dalla violenza, o le parentesi comiche come la preparazione del cibo per lo scarabeo oppure l’enorme fallo, recapitato a Trigeo come originale regalo di nozze. Inaspettato quanto condivisibile, dato il momento storico, l’epilogo aggiunto al testo che non vogliamo rivelare, molto meno ottimista di quello prospettato dall’autore.
La scenografia firmata da Alessandro Chiti è dominata da una colossale sfera grigio argento, simbolo del monte Olimpo, mentre la Terra è raffigurata da una cartina geografica che Pòlemos strappa a brandelli. I costumi, creati da Daniele Gelsi, sono atemporali e di fibre povere come canapa e paglia, virati sui toni del marrone e del beige. Le installazioni sceniche come l’imponente marchingegno che solleva Trigeo al cielo sono opera di Michele Ciacciofera; la cura del movimento è affidata Miki Matsuse e le musiche originali sono di Patrizio Maria D’Artista. Il cast è di alto profilo, a cominciare dal coro (contadini e servi) degli allievi dell’Accademia d’Arte dell’INDA, a seguire il perfido Pòlemos di Patrizio Cigliano, la conciliante Pace di Jaqueline Bulnés o quella accorata di Elena Polic Greco del monologo euripideo, Massimo Verdastro è prima l’esilarante Hermes dal forte accento lombardo e poi l’avido cialtrone Ierocle e si guadagna applausi a scena aperta. Trigeo ha la fisicità e il talento di Giuseppe Battiston che sa alternare registri burberi e riflessivi ad altri ricchi d’ironia e lepidezza, ma tutti gli interpreti sono impegnati in un vincente gioco di squadra, merito anche della scorrevole traduzione di Nicola Cadone che sceglie la giusta via tra modernità e rigore filologico. Per chi sarà in vacanza in zona, da non perdere le repliche nell’incantevole Valle dei Templi di Agrigento il 21 e 22 luglio.
Per approfondire i diversi aspetti del suo lavoro abbiamo incontrato Daniele Salvo subito dopo la prima al teatro Greco nei pressi dell’Orecchio di Dioniso, illuminato e suggestivo.
Cosa ti ha spinto a decidere di cimentarti con questo testo così complesso?
Per me ha rappresentato una vera e propria sfida dato che da molti è giudicato irrappresentabile o quasi, però è pieno d’invenzioni e trovate. La mia formazione ronconiana mi fa sempre essere rispettoso dell’autore che penso sia il regista occulto, quindi la prima cosa che cerco di fare è di decodificare il testo, senza sovrapporvi le mie idee ma partendo da ciò che l’autore vuole comunicare. Era poi necessario mettere insieme un cast che potesse supportare una scrittura di questo tipo e, memore delle parole di Gigi Proietti che affermava che in Italia non si fa la commedia ma la farsa, ho cercato di evitare il cliché della battuta volgare o ridanciana. Solo in parte è una commedia, perché sono presenti anche componenti tragiche e drammatiche. Del resto Louis de Funès diceva che per affrontare il comico bisogna sprofondare nel tragico.
Hai dato molto spazio alla musica, al canto e al ballo.
Non dimentichiamo che tragedie e commedie erano sempre arricchite da canti: è come recitare un libretto d’opera senza la musica che è andata perduta. In realtà, tranne alcuni frammenti con pochissime indicazioni, non sappiamo nulla di come le tragedie venivano rappresentate. Ronconi paragonava i tempi antichi alle stelle che, partendo da milioni di anni fa, ci arrivano da lontano e possiamo solo registrare il nostro stupore e la nostra distanza, apprezzando il mistero di quella luce. Volevo dare fruibilità e leggerezza alla commedia soprattutto in certi momenti d’insieme. Il testo lo imponeva, dato che a tratti è molto esile, non ha un plot pregnante e forte e quindi bisognava sostenere la narrazione con la musica.
Non è la prima commedia con cui ti sei messo alla prova: ricordo più di una tua Tempesta.
Ci sono dei punti di contatto e delle assonanze: quello di Shakespeare è un meccanismo perfetto, è il suo testamento, dove lui spezza la bacchetta e l’incanto. In realtà è un testo drammatico, pieno di misteri ed esoterismo. Per il personaggio di Macello, il brutale sottoposto di Pòlemos, ho pensato a Calibano ma anche in Trigeo c’è qualcosa del Bardo che di certo conosceva e attingeva ai testi dei tragici e dei commediografi. Sia quelle di Shakespeare che le tragedie greche sono opere violente e il teatro elisabettiano e quello tragico necessitano di una recitazione né borghese né educata, perché l’uomo greco non lo era e richiedono una prestazione attoriale estrema e macroscopica, oltre a stati emotivi parossistici e una verità interpretativa assoluta.
Nel tuo curriculum spiccano anche celebri e scomodi autori omosessuali come Genet (Il funambolo) e Pasolini di cui lo scorso gennaio hai curato PPP L’ultima intervista, quella che lui rilasciò a Furio Colombo poche ore prima dell’agguato. Che approccio hai usato e quali sono state le tue sensazioni nell’avvicinarti a loro?
Ho avuto prima il privilegio di lavorare con Ronconi sul Pilade di Pasolini, poi l’ho rimesso in scena come regista con il supporto di Laura Betti che era ancora tra noi. Di lui ho visto praticamente tutto e adoro il suo pensiero e il suo mondo. La sua è una scrittura fatta di carne e sangue, della “disperata vitalità” per citare una sua lirica, immerso com’era nel conflitto tra fame d’amore, desiderio e affetto e la poesia che scaturiva da quello sprofondare nelle pulsioni più sfrenate e in quello che allora si considerava “il peccato”, come poi raccontava lui stesso. È stato per me un viaggio straordinario perché a questa cosa lui abbinava una lucidità profetica e un’analisi del suo tempo e di quello futuro, tanto da parlare ancora a noi con una modernità incredibile. Negli anni Settanta era molto più difficile essere omosessuali e non essere giudicati: la Betti mi raccontò che alla notizia della sua morte molti esultarono. Questo suo non voler scendere a compromessi, il voler affermare la propria identità sessuale e il proprio pensiero è un esempio che resta unico nella Storia. Diverso è il discorso per Genet, ma la forza poetica del Funambolo, la verità della sua scrittura deriva proprio dalla condizione di persona non inquadrata nella società e dalle esperienze estreme vissute. Sono stati due incontri fondamentali, perché ho sentito la forza dirompente della coerenza e della potenza drammaturgica allo stato puro.
Hai citato due maestri, Luca Ronconi e Gigi Proietti: che ricordo hai del rapporto professionale e umano con loro?
Gigi era una persona semplice, di una disponibilità assoluta, aveva uno sguardo disincantato sul mondo. Ddiscutevamo per ore su come dire una battuta o un’intonazione, era un vero artista come oggi ce ne sono pochi, aveva una necessità divorante di fare questo lavoro, mettendo al primo posto le preoccupazioni artistiche, proprio come Ronconi. A Luca devo tutto, è stato mio maestro e mio amico, insieme abbiamo fatto viaggi meravigliosi. Mi ha insegnato ad alzare l’asticella e sfidare l’utopia. Era un instancabile sognatore, un utopista, non aveva paura di nulla e osava l’impossibile. Vedeva sempre le cose da un punto di vista non allineato e anche nella realtà quotidiana trovava angolazioni inedite, però era anche un uomo dalla dolcezza ineffabile che coltivava la propria innocenza e la propria infanzia.