A distanza di otto anni Massimo D’Aquino pubblica il seguito del libro autobiografico che raccoglieva le esperienze e le battaglie di una persona transessuale FtM nata al finire degli anni ’60 in Italia. Una nuova presa di parola T che aggiunge un prezioso tassello al mosaico della nostra storia.
“Cosa può succedere nella mente di una persona che vede crescere il proprio corpo esattamente all’opposto di ciò che sente?”. Questa frase presente nella quarta di copertina della prima edizione di Camminavo rasente i muri (autobiografia tascabile di un transessuale) di Massimo D’Aquino, edito nel 2014 da Aletti Editore e ripubblicato da Edizioni Croce nel 2019, sintetizza in modo mirabile l’inizio dell’esperienza di chi, com’è ritenuto più consono dire adesso, vive una “varianza di genere” o una “non conformità di genere”.
In italiano qualche decennio fa si usava la parola travestito per parlare di un uomo che “si sentiva donna”. Solo in tempi recenti nel linguaggio comune la definizione si è evoluta in transessuale, per approdare all’inglese transgender e all’acronimo MtF, Male to Female, da uomo a donna. Temo che in contemporanea nei dizionari non fosse al contrario prevista l’esistenza di persone cui era assegnato il genere femminile alla nascita e che crescendo si sarebbero percepite come uomini ovvero FtM, Female to Male.
La storia di vita di Massimo, uomo trans che camminava rasente i muri perché provava vergogna d’esistere, potrebbe cominciare proprio da qui: pur essendolo, non lo sapeva. Non era in grado di capirsi, perché non esisteva una definizione adatta per chi era come lui (e di certo non era il solo). Lui fu “uno degli innumerevoli figli del sud che, alla fine degli anni sessanta, furono catapultati da un’infanzia felice e inconsapevole, ad una incomprensibile realtà”. Grazie alla legge 164 del 14 aprile 1982 che consentiva il cambio di sesso e dei documenti, il percorso di transizione inizierà tardi e durerà 16 anni.
Nel seguito da poco pubblicato da Edizioni Croce con il titolo Io, che da mio padre ho preso solo gli occhi chiari l’autore riprende in mano il suo racconto e conferma lo stile del primo “libercolo”, come lui stesso lo definisce, un irruento e libero flusso di coscienza in cui si inseriscono frasi, pensieri, osservazioni, spiegazioni della sua realtà dal suo punto di vista.
Com’è ben spiegato nell’introduzione di Nicoletta Poidimani in Rasentavo i muri, centrale è il nodo dell’esperienza trans raccontata in prima persona e in maniera autocosciente. La citazione che segue è lunga, ma necessaria per comprendere l’importanza e il valore dei libri di Massimo.
“La tensione che animava il seminario (‘Elementi di critica trans’ svoltosi ad Arezzo nel 2008, N.d.A.) era la produzione di un discorso su di sé che fosse realmente autonomo tanto dai discorsi di ‘specialisti’ – medici, psicologi, ecc. – o accademici, quanto dai discorsi stereotipati che questi stessi ‘specialisti’ o accademici vogliono sentire dalle persone trans. Focalizzare il discorso sull’esperienza trans ha significato, quindi, rompere con gli stereotipi che codificano e ingabbiano la dirompente complessità dell’esperienza trans in qualcosa di rassicurante.
La transizione non è, infatti, mai considerata un valore d’uso che riguardi le persone direttamente coinvolte, ma un valore di scambio: ti concedo la rettificazione anagrafica del sesso e del nome se, in cambio, mi garantisci di non mettere in discussione l’ordine esistente e di contribuire alla sua conservazione. Da qui l’obbligo della sterilizzazione, ancora oggi richiesta per legge.
Finché la persona trans risponde alle aspettative sociali ripetendo a sé e agli altri di essere ‘nata in un corpo sbagliato’ può trovare un posto, se pure marginale, in questo mondo. Ma se, invece, afferma che è il mondo in cui è nata a essere sbagliato, allora viene percepita come pericolosa in quanto mina gli schemi dominanti. In sostanza, il sistema pretende che le/i trans si considerino come eccezioni di una regola che non può e non deve essere messa in discussione, pena l’esclusione. La violenza transfobica è diretta conseguenza di questo ordine sociale e sessuale, perché ne è la difesa estrema”.
La narrazione di Massimo non è sempre lineare, e tramite salti temporali racconta di quando era una bambina di nome Maria Giulia per passare dopo un capoverso a quando è già adulto, tornare a età intermedie e ripartire daccapo. “Non sarei mai potuto restare ‘donna’, ci ho pensato eccome se non ci ho pensato! A dirla proprio tutta c’ho anche provato, con la serietà e l’impegno che potevano essere miei a sedici anni”.
Inserite nel testo all’improvviso ci si imbatte in frasi che stordiscono come un pugno in pieno volto ben assestato, come per esempio “(…) non è una scelta e non c’è nessuna alternativa se non rendere il nostro corpo più piacevole agli occhi della mente; fare in modo che mente e corpo smettano di litigare da mattina a sera, rendendoci la vita impossibile”.
Massimo non aveva a disposizione internet e la possibilità di accedere alle informazioni disponibili facilmente adesso e necessarie per salvaguardare la propria salute fisica e psichica. Con indubbio coraggio in Io, che da mio padre denuncia quindi le discriminazioni e gli abusi subiti da parte di chi aveva il potere legale di decidere della sua vita e ha sfruttato la sua situazione pur di guadagnarci sopra.
Al tempo la legge richiedeva l’obbligo della sterilizzazione e si dovevano ottenere due sentenze: la prima per l’autorizzazione agli interventi e la seconda per la rettifica dei documenti. Oggi, per fortuna, non è più così, e basta una sola sentenza che non obbliga più a sottoporsi a qualsivoglia intervento.
Quello che per modestia, all’opposto, non mette abbastanza in risalto è il suo lungo impegno come attivista e militante LGBT. Io mi ricordo di averlo incontrato sfilare al corteo di un pride milanese indossando una maglietta con scritto “Attaccati al trans”, capace quindi di sviare con autoironia un tipico insulto che usa il mezzo pubblico più famoso della città: il tram.
Adesso viviamo in un’epoca dove un ragazzo trans come Francesco Cicconetti diventa influencer, ma sul profilo Instagram scrive in carattere maiuscolo NON SONO UN ATTIVISTA. Nel 2021 il marchio di moda H&M lancia la campagna Beyond the Rainbow e lui appare sia in uno spot insieme a Mj Rodriguez, la meravigliosa Blanca Evangelista della serie TV Pose di Ryan Murphy, sia in una brevissima intervista. Nel 2022 è uscito al cinema il docu-film Nel mio nome del regista Nicolò Bassetti, che racconta la storia di quattro giovani FtM, di cui Elliot Page è stato il produttore esecutivo.
Pongo alcune domande a Massimo per chiedergli cosa pensa di questo passaggio generazionale e di come in generale vede la situazione della comunità transmasc in Italia adesso.
La tua esperienza di transizione è molto diversa da come si può vivere e da come è raccontata adesso, penso ai video presenti su YouTube per esempio. Come vedi i cambiamenti avvenuti?
Rivoluzionari. Questo è un termine che si addice ai cambiamenti avvenuti, perché di certo, rispetto a ciò che avveniva ai miei tempi, di rivoluzione si tratta. Tra l’altro credo sia avvenuta molto repentinamente con l’avvento di internet, dando la possibilità a chiunque di raccontare la propria esperienza. Io potevo parlare tutt’al più con me stesso e neppure sapevo cosa/chi fossi.
Ho sentito parlare di “transessuale FtM” quando già avevo trent’anni e ho fatto molta fatica ad accettarlo e a farlo mio. La cosa buffa è che quando dopo anni ho finalmente introiettato questo termine e l’ho fatto mio, l’ho sentito appartenermi, si è smesso di usarlo perché troppo facente riferimento al sesso, obsoleto. Io continuo però imperterrito a definirmi (quando proprio ce n’è bisogno) un uomo transessuale.
Uno dei risvolti positivi di questa rivoluzione è la possibilità di trovare testimonianze molteplici e molto differenti tra loro; c’è voglia di autodeterminazione e di raccontarsi per quello che si è con tutte le sfumature esistenti. Da tempo si parla di non-binary, di genderfluid e ci sono giovani che si raccontano e spiegano cosa significa per loro. C’è sempre molto da imparare.
Io mi sono sentito relegato a dover “scegliere”: o sei maschio o sei femmina! Non c’erano alternative.
Molto di quanto ruota intorno al percorso di transizione nella collettività T è denunciato come “transificio”, una strada obbligata che in alcuni paesi esteri si sta provando a cambiare sulla base dell’autodeterminazione del genere attraverso una semplice dichiarazione amministrativa. Cosa ne pensi?
Occorre partire da lontano e cioè dal 1982, anno in cui, il 14 aprile fu promulgata la legge 164 che, finalmente, riconosceva l’esistenza delle persone trans. Quanto meno le persone trans smettevano d’essere fantasmi e con l’entrata in vigore della legge potevano essere rinominate e riconosciute.
È vero, oggi questa legge risulta essere obsoleta e ampiamente superata, ma va assolutamente contestualizzato il momento storico in cui venne approvata e ricordare le lotte instancabili delle persone trans che hanno continuamente manifestato per far sì che venisse approvata. Paradossalmente si dimostrò più ben disposto e illuminato il governo di allora (dominato dalla Democrazia Cristiana) che non quello di oggi che ha affossato il DDL Zan tra gli applausi (vergognosi) dei parlamentari.
Fermo restando che la 164 obbliga di fatto alla modificazione dei caratteri sessuali per ottenere la rettifica dei documenti (oggi questo obbligo è stato tuttavia superato, grazie a sentenze di rettifica del nome senza che sia necessario operarsi), la legge non parla affatto di percorso di transizione, che io chiamerei “calvario” per la transizione.
Il transificio è stato di fatto deciso da un’associazione fondata nel 1998, l’ONIG Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere, che ha stabilito degli standard secondo i quali una persona transessuale deve sottoporsi a un lungo cammino fatto di percorsi psicologici/psichiatrici e legali per ottenere le sentenze necessarie a esistere come persona trans. Cosa ruota attorno a tutto questo? Semplicemente il vile danaro. Moltissimi professionisti e solo quelli riconosciuti, si arricchiscono alle spalle di persone che dovrebbero poter fare tutto semplicemente autodeterminandosi.
Ultima batosta la determina AIFA (settembre 2020) che stabilisce quali sono i centri prescrittori per accedere “gratis” alla terapia ormonale. Considerato che in Italia i centri legittimati sono davvero molto pochi, diventa una beffa vera e propria costringere una persona a spendere centinaia di euro (un viaggio dalla Sardegna a Roma per esempio) per recarsi in uno di questi centri per ottenere “gratis” gli ormoni. Non solo, limitare la professionalità di tantissimi altri endocrinologi che potrebbero operare in questo senso, serve solo a rendere più lunghe le liste d’attesa già solo per iniziare il percorso. Percorso, ripeto, che non è stato in alcun modo stabilito dalla 164. Insomma anziché semplificare la vita delle persone trans è stato fatto di tutto per complicarla.
Tu iniziasti la militanza LGBT in epoca pre-internet con Crisalide Azione Trans a Milano, poi hai lasciato questo percorso e da qualche anno lo hai ripreso a Roma con Libellula Italia. Cosa bisognerebbe fare secondo te per migliorare lo stato delle nostre cose?
Lo so è utopico, ma vorrei che si smettesse di farsi le scarpe a vicenda e si decidesse di istituire un coordinamento nazionale tra tutte le associazioni trans presenti in Italia (forse ci sono ancora i resti di quello che è stato un tentativo poco longevo, mi riferisco al Coordinamento Sylvia Rivera). Vorrei si unissero forze e competenze e che riprendesse corpo quel Movimento trans che non esiste più. Vorrei cessassero le manie di protagonismo e le parole trite e ritrite, spesso ripetute solo per sentito dire, senza la consapevolezza del significato vero di quello che si dice. L’unico modo per farsi sentire è essere uniti e tanti, purtroppo esiste una frammentazione all’interno del mondo trans di tante piccole realtà che non riescono a fare breccia. C’è rivalità, una competizione non costruttiva, ma volta a sovrastare e calpestare.
Oggi troppo spesso non ci si confronta bensì ci si insulta e questo non avveniva ai tempi di Crisalide. Io ricordo giornate intere passate a confrontarci con altre realtà (lesbiche/gay) in cui c’era la voglia di conoscersi e di capire le differenze. Ognuno metteva sul piatto le proprie istanze e se ne parlava, erano “discussioni” costruttive durante le quali, per quanto ci fossero anche scontri duri, si usciva insieme e insieme davanti a una birra si continuava a parlare fino a notte fonda. Uniti pur nelle differenze.
Secondo te quali sono gli strumenti più efficaci per far conoscere la realtà trans?
Io credo che uno degli strumenti più efficaci che abbiamo a disposizione sia fare cultura, arte in ogni sua forma. E mi riferisco a teatro, letteratura, cinema, arti figurative. Moltissime persone trans (chiaramente non perché trans) hanno il “pallino” dell’arte. Mi piacerebbe che avessero l’opportunità di sviluppare le loro passioni in merito a ciò che sanno fare meglio, con passione, dando vita magari a un Festival Trans multimediale.
Un altro mio sogno nel cassetto è una sorta di museo trans, dove siano esposti gli strumenti che fin dal passato ci hanno permesso di modificare il nostro aspetto a seconda del nostro sentire. A Londra nel 2017 alla Fashion Space Gallery, presente all’interno del London College of Fashion, si tenne la mostra “Museum of Transology“, che fu la più grande e audace esposizione di oggetti e ritratti dal mondo T mai esposta nel Regno Unito.
Fare arte è liberatorio e abbiamo bisogno di sentirci liberi.