In un documentario senza censure né pregiudizi Porpora Marcasciano si racconta condividendo anche alcuni dei suoi filmati più privati. La storia piena di favolosità di una tra le più carismatiche figure del movimento LGBT italiano, che ancora esercita un’influenza essenziale nelle nostre esistenze.
Quando lo scorso luglio, in occasione del 36° MIX Festival Internazionale di Cinema LGBTQ+ e Cultura Queer estival di Milano mi proposero di intervistare Porpora Marcasciano insieme al regista Roberto Cannavò, che venivano a presentare il documentario Porpora, mi tornò in mente una frase che disse Keith Richards dei Rolling Stones quando gli fu dato un premio musicale come leggenda vivente: “Non è difficile essere una leggenda, è vivere che è difficile”.
Da militante LGBT negli anni mi è capitato spesso di incrociarla e ascoltarla parlare sui palchi dei pride, a manifestazioni, eventi, dibattiti e presentazioni di vario tipo, ma in questi incontri non riuscivo mai ad andare oltre allo scambio di qualche battuta al volo o di una risposta a una domanda come pubblico in sala.
Un’intera ora di tempo insieme, quanto la durata della proiezione, era un’opportunità unica da non lasciarsi sfuggire di incontrare chi, come me, vede in lei una vera leggenda la cui vita senza ombra di dubbio ha cambiato in meglio le esistenze d’innumerevoli persone transgender, omosessuali e qualsiasi altra definizione ora si desideri essere.
Malgrado io avessi preparato delle domande specifiche riascoltando quanto ho registrato mi sono reso conto che in realtà è avvenuto un libero flusso di coscienza, e ritrascrivere la sbobinatura non avrebbe avuto molto senso. Quello che vi propongo è una sorta di compendio di cui mi assumo in pieno la responsabilità.
Come ha spiegato il regista, Porpora è lo sviluppo del cortometraggio Divieto di Transito del 2020 (disponibile sulla piattaforma Streen.org), che lui definisce uno studio di montaggio. L’idea iniziale era il documentario, ma il materiale girato e quello di repertorio fornito da lei erano talmente abbondanti che questo passaggio si rese necessario per comprendere come valorizzare al meglio tutto.
In Porpora la protagonista rivive la scoperta della propria identità personale e politica. Le immagini di un viaggio in macchina in giro per l’Italia si alternano a quelle provenienti dal suo archivio personale, e nelle chiacchiere con chi la accompagna (il co-produttore Vittorio Martone) si mescolano le battaglie per i diritti, le sue radici nel Sud Italia, la vita a Roma e a Bologna, i viaggi (dagli Stati Uniti al Giappone) e gli incontri (come con Sylvia Rivera, la donna trans che secondo l’errata cronaca popolare avrebbe lanciato contro la polizia la bottiglia che fece esplodere i moti di Stonewall).
L’avventura umana di Porpora Marcasciano incrocia i movimenti femministi, comunisti e transgender dagli anni Settanta a oggi. Superati i sessant’anni non nasconde qualche stanchezza, però non si è nemmeno offuscata la sua lucida determinazione e irresistibile capacità di analisi delle nostre realtà LGBT.
“La vita non è sempre uguale, la storia non è sempre uguale e dobbiamo avere la capacità di leggere i tempi e le situazioni mutevoli che cambiano e in base a quelle rapportarci. Non possiamo essere sempre uguali, io non sono la stessa dagli anni degli inizi, sono la stessa dentro, sono situazionista: non mi adatto ai tempi, ma li leggo e mi comporto di conseguenza. Questa è una raccomandazione che si può fare un po’ a tutto e a tutti”.
Porpora espone molte cose, e tra le più interessanti per le nuove generazioni ci sono quanto l’individualità può riuscire a produrre cambiamenti sociali, e che una singola voce ne può rappresentare molte altre che magari non hanno lo stesso talento nell’esprimersi o le occasioni di farsi sentire.
In un articolo trovato in rete, invece, avevo letto che il regista dichiarava che il film attraverso la sua protagonista racconta le difficoltà di tutta la comunità transessuale. Di seguito c’è il suo commento diretto, però sento il bisogno di esprimere che questa è un’opinione che comunque io non condivido. I tempi sono cambiati troppo e molte difficoltà, pur se non sono state ancora superate del tutto, anche le persone T le affrontano con strumenti e riflessioni completamente differenti. Il racconto del documentario, inoltre, è troppo focalizzato su di lei, quasi un’enciclopedia in cui trovare qualsiasi informazione possibile, e questo per me ne limita la fruibilità.
Chi non conosce già un minimo Porpora o la storia del movimento LGBT italiano, infatti, rischia di non seguire il filo del racconto, mentre per chi ne è informato è un arricchimento soprattutto grazie alle rare immagini in cui si capisce che già a vent’anni lei possedeva un carisma che molti e molte non raggiungono in un’intera vita.
Non è questo lo spazio adatto, ma sarebbe interessante aprire un confronto per esempio con Nel mio nome diretto da Nicolò Bassetti e prodotto dall’attore Elliot Page, che racconta la transizione di genere di quattro ragazzi, che senza Porpora e tutto il movimento LGBT che li ha preceduti non avrebbero la libertà e la serenità che mostrano alla telecamera. Esprimo al regista il mio pensiero che a volte ci si appiattisce sulle solite narrazioni.
“Innanzitutto vorrei fare una precisazione rispetto a quello che è il film: io non appartengo alla comunità LGBT, nonostante naturalmente ne condivida delle battaglie, e questo voleva essere uno dei punti di forza. Se si è all’interno, uno dei rischi può essere quello dell’autoreferenzialità. Quello che ho provato a fare, spero di esserci riuscito, è guardare il movimento attraverso Porpora con uno sguardo un po’ più intimo. Non volevo fare il documentarista che spiega un fenomeno come se fossimo allo zoo, dove ci sono degli animali strani, ma muovermi dall’interno pur se in maniera distaccata. Mi sono reso conto che spesso si è fraintesa la motivazione originale alla base di questo lavoro. Sul modo di narrare le cose di sicuro a volte ci sono delle scelte fatte per opportunità, ma per me lo scopo di un documentario è di far nascere delle domande e non quello di spiegare tutto”.
Durante la visione mi si dipanarono due fili rossi della vita di Porpora: la sua curiosità estrema e che non si è mai lasciata spaventare dal nuovo. Ha co-fondato il Circolo Narciso che diventerà il Circolo Mario Mieli a Roma, più tardi il MIT a Bologna dove adesso è consigliera comunale 26 anni dopo Marcella Di Folco.
Tornando al presente, non potevo esimermi dal chiederle un pensiero sull’affossamento del DDL Zan che si è molto inciampato sulle questioni T (qui le opinioni di Giovanni Dall’Orto e qui quelle di Nathan Bonnì). Per me è mancata una spinta politica dal basso della popolazione arcobaleno.
“Alla nostra popolazione, alla nostra gente quello che è venuto a mancare è una coscienza. Ci siamo, e uso il plurale, abituati e abituate alla delega, alle cose che ci cascano dal cielo, con qualcuno che ce le confeziona. Ma così non è: se non c’è un movimento, definiamolo così, incisivo che sappia essere la giusta spina nel fianco della politica e che rivendichi tutta una serie di cose non si va molto più in là di quello. Il DDL è stato bloccato, perché ci sono come ci sono sempre state delle forze diciamo contrarie. Quelle di destra fondamentaliste le avevamo messe in conto, non avevamo messo in conto che c’era una parte del femminismo che noi davamo per scontato fosse vicina che, invece, è stato quello che ha fatto la differenza. Si è creata un’impasse in cui il movimento non ha saputo dare le giuste risposte sia in termini di elaborazione politica sia in termini pratici. È fin troppo facile pensare ai contrasti, ai nemici cosiddetti. Più difficile riconoscere i problemi interni dilaniati, non è una novità, dalle mille contrapposizioni e questioni personali che io trovo molto, molto tossiche”.
Quando le chiedo come vede le nuove generazioni T, lei mi risponde: “Le vedo bene, perché intanto stanno usando e prendendo dalla vita quello che serve. Sono anche molto effervescenti le nuove generazioni, ma la questione che mi lascia perplessa un po’ e aver spostato tutto su un piano virtuale come i social, e questo corre il rischio di far perdere un po’ quello che sono le proporzioni, le dimensioni e le prospettive. Quello che succede a San Francisco si dà per scontato che può essere quello che succede in Italia, mentre ci sono percorsi diversi di cui bisogna tenere contro, altrimenti le risposte di tutta una serie di interrogativi che ci poniamo non ci tornano”.
Per cercare di chiudere i miei cerchi mentali, chiedo a Roberto come pensa che Porpora sarà accolto al di fuori dei circuiti protetti e privilegiati dei festival LGBT. “Il documentario nasce come una narrazione per tutta quella fetta di popolazione che non ha idea della comunità arcobaleno, che pensa che essere trans sia andare ai pride a sfilare con il seno di fuori. Invece si parla di persone non nel senso di ‘Ah, sono persone anche loro’, bensì c’è un vissuto dietro, ci sono delle famiglie, ci sono dei sogni e delle difficoltà come per chiunque. Se vengono fatte cadere le corazze utilizzate le persone meno empatiche potranno capire la realtà dietro a tante situazioni”.
Concludo con una saggia riflessione di Porpora in un momento in cui il nostro passato sta diventando un mito, il presente è nebuloso e speriamo non ci metta in seri pericoli, e il futuro è più incerto che mai. “A me l’elaborazione piace, è importante, è necessaria perché senza quella non riusciamo nemmeno ad avere una bussola ma non può essere solo quella. I problemi nella vita li abbiamo e cosa facciamo, ci aggrappiamo alla teoria? Le cose devono essere bilanciate”.
Per seguire le prossime proiezioni: www.facebook.com/PorporaIlFilm