Un poeta gay racconta di tre amicizie personali con altri due poeti gay e una poetessa lesbica, dandoci la possibilità di scoprire o approfondire l’arte e il valore di tre colonne portanti, più una, della nostra letteratura comunitaria.
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Come si può descrivere la vita di un o un’artista? Ha senso parlare del suo privato o bisogna limitarsi alle sue opere? Tre monologhi. Penna, Morante, Wilcock, Il Ramo e la Foglia edizioni pp. 80, di Elio Pecora, poeta, scrittore, saggista, e critico letterario, non risponde a questa domanda, ma dà una sua risposta.
È un libro che nasce dalla personale amicizia dell’autore con loro, e se un consiglio posso dare al lettore di questo piccolo, grande testo, è di appartarsi in una stanza silenziosa e iniziarne la lettura alla luce modesta di un’abat–jour. A quel punto sarà come se il sipario si aprisse e i monologhi di Sandro Penna, J. Rodolfo Wilcock ed Elsa Morante – grazie alla sensibile e delicata mediazione di Elio Pecora, potranno cominciare.
Il primo, ad avventurarsi su questo palcoscenico improvvisato, è colui che tanta parte della critica ha definito “il poeta del desiderio omoerotico”. Definizione calzante ma senz’altro riduttiva, perché i suoi versi hanno la capacità di entrare nelle nostre esistenze – confuse e irrazionali, frettolose e superficiali – intercettando lo scorrere del tempo per fermarci sull’essenziale.
Così siamo per mano con Sandro, con la sua quieta follia (che lui stesso chiamava follia “a metà”) a farla nostra oggi, al di là del tempo che, solo in apparenza, i nostri orologi credono di poter determinare. E, senza quasi accorgercene, siamo non solo con lui, ma diveniamo lui, le sue lacrime nostre, e allo stesso modo ci appropriamo di quella felicità, per lui, nata da un brilluccichio artificiale.
Una felicità che l’uomo, almeno quanto il poeta, ha inseguito fin oltre il sogno, ogni immaginazione. La felicità dell’amore, che l’amore nega.
E nel monologo, che è in realtà un dialogo con noi – per chi ancora abbia voglia di ascoltare, vedere, sentire –, noi scopriamo incise quelle stesse parole che già galleggiavano nella nostra anima:
La vita come un gioco senza fine,
una promessa felice e insieme una sfida
Ma anche:
La vera vita che non si lascia toccare
Questo per me è stato l’amore
Fino alla confessione finale
Seppi presto che l’amore,
quello che ti esalta e ti strazia,
passa veloce
E con lui la felicità,
anche lei cieca e straziante.
Sandro Penna che quasi si scusava dei suoi versi “senza impegno civile”, ma che pur scusandosi ribadiva: Sono eterni i sentimenti, l’eternità breve dell’umo, da Gilgamesch all’astronauta. Di che altro volete che parli? E visto che era omosessuale, di questi suoi amori sono ricchi i suoi versi, ma lui non se n’è mai vergognato: “Io non mi nascondevo, non avevo nulla da nascondere”.
Nel suo monologo, con dolcezza, Pecora aggiunge ciò che Sandro, per timidezza, forse neppure ci avrebbe confessato: “Sono stato vivo, e quei momenti erano la mia eternità, smisurata e inspiegabile. Dopo, ricordare il piacere segreto, il dolcissimo struggimento (…) È stato un sogno il mio, il sogno di un’età intatta, felice, ma dentro la veglia e soltanto un sogno.”
Ma nell’autoritratto che queste pagine ci consegnano del poeta, egli è anche l’uomo prigioniero volontario di una stanza, dalla quale evadeva soltanto per parlare “di dentro al dentro”. Così, con candore e innocenza ci racconta della genesi dei suoi versi che spesso nascevano da una parola, da un aggettivo scarabocchiato su un angolo spiegazzato di quotidiano. Erano le sue apparizioni, quelle che lui voleva fermare, “una sedia, una maglia rossa, un ragazzo che si tuffa nel fiume, un cane festoso”.
Il caotico puzzle della vita e l’estremo tentativo di renderlo immortale, perché anche lo sguardo di un randagio ha diritto a oltrepassare la morte? Ma, come diceva Fernando Pessoa, il poeta è un fingitore e, quindi, neppure il nostro Sandro può sfuggire a questo destino: La luce abbisogna dell’ombra, l’ombra della luce.
Quindi egli in realtà sa che la morte non può essere ingannata né il tempo fermato, e teme lo sguardo di pena negli occhi di chi contempla in lui l’avanzare devastante dell’età, eppure è un poeta e sa che non può mostrare timore, “nostalgia della vita per intera, per quel che ci viene sottratto dalla morte ed è interminabile e inconoscibile vicenda di ogni giorno e di ogni minuto, la luce e il buio, la gioia e il disagio, anche la delusione e la paura. La vita che ci è stata data e di cui rimane una sete infinita, una fame perenne (…) L’essere che porto dentro chiede ancora di respirare, di riconoscersi negli altri. Nostalgia della vita”.
E allora si accontenta, rifiutando qualsiasi patto di faustiana memoria, il Sandro Penna donatoci da Elio Pecora sa persino accettare il destino e accontentarsi: “La mia è stata una luce piccola, forse a momenti abbagliante. Mi piace pensare che qualche mio verso resti nella memoria di un ragazzetto attento, di una donna gentile. Io vivere vorrei addormentato.”
Tutt’altro lo spirito che anima il Monologo con figure che Elio Pecora dedica all’amico J. Rodolfo Wilcock, scomparso nell’ormai lontano 1976, difatti lo sottotitola “epicedio” ovvero canto funebre. Leggendo il ritratto a più voci che ci viene affidato nasce immediata la domanda: “Ma questo ‘strano, strambo, che scrive poesie, racconti, commedie, e critica tutto e tutti’, questo argentino divenuto italiano post mortem, sarebbe capace di suscitare interesse o anche mera curiosità nelle nuove generazioni di lettori?”.
E le numerose citazioni di personaggi, gli accenni di trame – che dovremmo seguire con il sottofondo del tango cantato da Gardel – non fanno offrire all’ipotetico giovane un materiale tutt’altro che banale. Frutto, all’opposto, di un’immaginazione fin troppo bizzarra. E suscitare al contempo stupore e interrogativi, o almeno è ciò che accadde a me quando decenni fa mi trovai tra le mani La sinagoga degli iconoclasti. Quando dopo averlo letto e averne subito il fascino, cercai notizie su di lui rimasi con poche briciole, trafiletti o poco più, un nonnulla che la nostra pregevole critica nazionale era riuscita a dedicargli.
Adesso, il monologo di Elio Pecora, come un Pollicino ritardatario, mi regala qualche traccia, un abbozzo a carboncino di questo insolito protagonista del nostro pantheon culturale. Lo fa a bordo pagina, in punta di piedi, dopo averci descritto tutte le sue contraddizioni, quel suo essere ciclotimico – così almeno lo aveva definito Pasolini che pure lo ammirava –, lo fa accostandolo al suo amato Sandro Penna, “Anche lui pretendeva paradisi, chiedeva il miracolo della felicità… E sempre si scontrava con il mondo”.
I suoi versi d’amore:
Comunque sia questo mondo è per te
Mi sono domandato molte volte
a che serviva, e non serviva a niente,
ma adesso grazie a te ritorna utile…”
Gli occhi di Wilcock, se non fosse superfluo, ne sono ulteriore conferma, “occhi grigi, gelidi, ma a chi avesse saputo vedere in quegli occhi s’apriva, per qualche istante, una luce verdina che pareva supplicare simpatia, forse anche amore”. Anche lui subordinato, con tutto il suo contraddittorio essere, all’amore di giovani, come prima di lui l’imperatore Adriano che non poté nulla frenare della sua passione per il fanciullo Antinoo.
Ma alla resa dei conti, la figura di Rodolfo Wilcock non può andare oltre ciò che lui stesso sapeva di sé. Cosa volesse, chi fosse, al di là di dove fosse diretto. Come ha cantato più volte l’amore non poteva, e non poté, salvarlo dalla conclusione che noi tutti attende, dall’incontro con colei che definì “sorda, avara, rapace, stecchita, crudele, fiera, spietata”, con sorella morte.
Il terzo, e conclusivo, scritto Elio Pecora lo dedica a una donna, Nello specchio di Elsa, dandoci di Morante un ritratto inaspettato. È quello di una donna anziana, che finge con se stessa di avere davanti a se un Tempo infinito, quell’idea folle della giovinezza, oramai alle spalle. Come i personaggi che ha creato, e mandati a camminare per il mondo. No, sono tutti ancora con lei, come fantasmi, ombre della sua fantasia artistica.
L’autore del monologo lascia che noi la si possa seguire per le strade, i vicoli, le trattorie della sua Roma. Ma a farlo è forse la sua controfigura, una sonnambula intraprendente, mentre lei, Elsa Morante, sempre più si rinchiude nella sua stanza, uno spazio che neppure sente appartenerle.
E di nuovo – e vorremmo dire e ancora, e ancora e sempre – è l’amore a dettare il ritmo anche di questo cuore: la “Paura di non essere amata” che la tormenta dalla più tenera età, e che l’ha spinta a rifugiarsi nella scrittura, dove dando vita ai suoi personaggi ha creato amici, compagni di gioco, amanti.
Ma non solo suoi… Pecora, con tenerezza, ci mostra come ben presto la scrittrice romana dovette ricredersi. “Ha saputo presto che i suoi giochi segreti l’avrebbero consegnata ai tanti senza volto né nome che stavano aspettando, per riconoscersi, forse per dimenticarsi”. Perché la scrittura, come sanno Morante ma anche Pecora, è insieme premio e castigo. E scrivere significa “restituire le storie che premono dentro perché appartengono a tutti”.
Ma di nuovo per lei, come per Penna e Wilcock, ecco spuntare il fantasma dell’amore, quel bisogno così umano e così tanto insaziabile. Per esso Elsa prova le note delle parole, compone una musica che non ha suoni, se non l’impercettibile correre dello sguardo lungo le righe stampate. Tentativo che però fallisce, chiosa Elio Pecora. “Non gli era dato contentarsi di un amore difettoso. Inventava teatri di parole per innamorare, per tenere l’altro, ma in un sortilegio di assenze”.
Eppure né la guerra, la crudeltà della menzogna degli uomini, le morti precoci, nulla l’ha distolta dalla scrittura, mai è arrivata a dichiararla vana. O, almeno, così ci racconta l’autore del monologo, che ci spiega di come Elsa scrivendo scordasse il suo che invecchiando si sfaldava, gli amori che l’avevano addolorata e poi delusa, e quel dolore insopportabile che è peculiare di chi alberga su questo nostro piccolo mondo.
E la felicità… Quale felicità?
“Da che può venire solo una fiammella di bene se, ogni ora, ogni istante, assistiamo al disfacimento di quello che dovrebbe renderci vivi?”
Tre Monologhi, con la “M” maiuscola, che ci hanno portato nell’ultimo anelito di tre poeti, un anelito – combinazione? – che per tutti è stato in una stanza. Loro che avevano corso il mondo, dove con il corpo ovunque con l’immaginazione, alla ricerca di una felicità che solo l’Amore può dare, e quel loro instancabile cercare è l’eredità che l’autore di questo “piccolo e splendido” libro indica a noi e alle generazioni che verranno, l’unica ragione che ci permetta di sbeffeggiare, con una sonora e gorgogliante risata, sorella morte. L’attimo d’amore che brilla della sua luce unica nulla potrà mai cancellarlo.
Vorrei concludere queste mie poche righe con un ringraziamento sentito dal profondo nei confronti di chi ha voluto farci dono di queste splendide pagine, un dono particolare e del tutto unico che permette al lettore contemporaneo, che non potrà mai avere la fortuna di incrociare le vie di Penna, Wilcock e Montale, di essere non solo per qualche ora, ma per tutto il tempo in cui le voci questa lettura resteranno a echeggiare dentro di lui, spalla a spalla con tre giganti del Novecento, tre artisti che – ne sono certi – chi ancora non ama sarà determinato a conoscere al più presto.
Ancora grazie Maestro Elio Pecora.
N.d.R. – Segnaliamo l’articolo “L’editore intervista l’autore: Elio Pecora”