Un testo teatrale inglese fa conoscere, soprattutto alle giovani generazioni, Quentin Crisp, a torto quasi dimenticato pur essendo stato un’icona della trasgressione sin dal primo Novecento, quando non esisteva il coming out e la sola effemminatezza era causa di emarginazione e abusi. Luca Toracca gli dà voce e corpo sulla scena.
foto: Laila Pozzo
Nei terribili mesi dei devastanti bombardamenti su Londra da parte delle armate tedesche nel 1940, il suo primo impulso fu quello di procurarsi una scorta di quasi tre chili di henné. Questo piccolo aneddoto già rivela in parte la natura controversa e provocatoria di quell’icona queer che fu Quentin Crisp (1908-1999), scrittore, conferenziere, uomo di teatro, giornalista, opinionista, attore e soprattutto fine umorista e conversatore. Crisp è poco noto in Italia, ma era celebre nei paesi anglosassoni.
Nato Denis Parr in una cittadina del Surrey, sin da ragazzino non teme di nascondere la sua effeminatezza guadagnandosi derisione e violenze che però non lo scoraggiano a proseguire gli studi. Negli anni Trenta inizia a frequentare i locali gay di Soho a Londra, dove per qualche mese esercita per necessità la prostituzione, decidendo poi di trasferircisi, affittando una camera nel quartiere di Pimlico e cambiandosi anche il nome.
La sua lunga vita ce la racconta il drammaturgo e attore inglese Mark Farrelly in Quentin Crisp – La speranza nuda, un monologo che lo stesso autore, uso a portar sulla scena biografie di personaggi celebri come quella di Derek Jarman, Patrick Hamilton (l’autore del thriller Luce a gas) e del collega attore Frankie Howerd, dopo il debutto al festival di Edimburgo nel 2014, ha interpretato nel Regno Unito e negli Stati Uniti. “Quello che di Quentin mi ha affascinato è stato il suo modo di affrontare la vita e le tante persecuzioni che ha dovuto subire.”
La pièce si rifà a quegli one man show che lo stesso Crisp aveva ideato nel 1978 e, una volta trasferitosi a New York nell’81, diventarono di grande successo negli anni Novanta. Erano tutti imperniati sulla sua avventurosa esistenza, i suoi aforismi sul modello di Oscar Wilde, i paradossi e l’assenza di tabù in materia di sesso.
L’avevamo lasciato, capelli tinti di rosso, così come le unghie di mani e piedi, nel suo monolocale dove, si sussurrava, confluissero sia brillanti ingegni che rozzi scaricatori di porto e approfittatori vari, ma ostracizzato dagli stessi circoli omosessuali che non gli perdonavano la sua visibilità in una società ipocrita e repressiva, con lo spettro del carcere che aleggiava sinistramente. La depenalizzazione degli atti omosessuali tra uomini, estesa unicamente all’Inghilterra e al Galles, avverrà solo nel 1967 (mentre il lesbismo non era mai stato illegale).
Crisp non si fa mancare neppure un’accusa per adescamento da cui in tribunale si difende cosi, “Vostro onore, io non mi spingo agli estremi, ci vivo. Mi vesto e vivo in modo tale che tutto il mondo capisca che sono omosessuale e questo mi separa dal resto dell’umanità, anziché facilitarmi… A me il sesso illecito non interessa, anche perché guardare il cavallo dei pantaloni di un uomo, dopo un po’ diventa più noioso che guardarlo negli occhi.”
Sfiorata per un soffio la laurea, trova un posto come impiegato statale posando nudo in una scuola d’arte, esperienza che poi confluirà nel libro autobiografico The Naked Civil Servant (Il funzionario nudo), pubblicato nel 1968 e che ottiene un grande successo di critica. Il titolo ironizza su un lavoro in cui timbrava il cartellino per togliersi i vestiti. Sette anni dopo la sua storia sarà portata sul piccolo schermo da Jack Gold con John Hurt protagonista e trasmessa dalle reti televisive inglesi e americane.
Nel 1940 da Pimlico si trasferisce in un monolocale a Chelsea, dove rimarrà sino alla partenza per gli Stati Uniti. “Non preoccupatevi per le pulizie di casa: dopo quattro anni lo sporco non aumenta più!”. Nel 1976 debutta nel cinema interpretando Polonio in un Amleto low budget in cui Helen Mirren è sia Ofelia che Gertude.
È solo quando attraversa l’oceano che il suo carisma gli spalanca definitivamente le porte del cinema e del teatro rendendolo una leggenda vivente. Eccolo allora nel film The Bride dell’87 in cui recita Sting che poco dopo gli dedicherà il brano Englishman in New York. Sally Potter lo vorrà nei panni di Elisabetta I in Orlando, e apparirà anche in un cammeo nella scena del party in Philadelfia di Jonathan Demme.
Nella Grande Mela alloggia finalmente in un piccolo appartamento, ma non cambia la sua filosofia esistenziale, “Tutto ciò che è degno di un uomo, io oso farlo”, e neppure il suo rapporto con il denaro. Capace di estrema generosità, si ritrova spesso a sopravvivere accettando inviti a cena, ricambiati affabulando i commensali con i suoi esilaranti racconti oppure cibandosi di tartine e champagne alle vernici d’arte o alle prime a teatro e cinema. Sempre John Hurt lo impersonifica ancora nel film del 2009 An Englishman In New York che racconta gli anni in cui ricominciò la sua vita. “A 72 anni molti progettano di trasferirsi in una casa di riposo: io invece ho preferito trasferirmi a New York”.
Nonostante la sua stigmatizzazione non proprio benevola del 1974 nei confronti del Gay Liberation Front, si rifiutava di riconoscersi nel movimento gay, a cui l’attivista Peter Tatchell reagì assai male, Quentin nel ’96 fu invitato e partecipò con entusiasmo al secondo Pride Scotland a Glasgow, e non mancò di dare la sua preziosa testimonianza al documentario The Celluloid Closet, oltre a improvvisarsi speaker in un programma televisivo sulla vita di Boy George.
Era e rimase fino alla fine un omosessuale “all’antica” che rappresentava un’epoca pre-liberazione da moti di Stonewall, ma è indubbio il suo estremo coraggio nell’essere stato sempre se stesso e nell’ostentare pubblicamente la sua effeminatezza in decenni in cui fare coming out era praticamente impensabile. “Quando ero giovane [l’omosessualità] non si nominava neppure. Ora non si fa altro che parlarne” si lamentava in proposito.
Il cuore lo ha tradito a Manchester nove mesi prima prima del novantunesimo compleanno e alla vigilia di un tour nazionale del suo show. Come da sua volontà, le ceneri furono sparse a Manhattan. A far conoscere il testo di Farrelly ci ha pensato Ferdinando Bruni del Teatro dell’Elfo di Milano, meritoriamente curioso di quanto succede nelle drammaturgie e nei teatri oltre Chiasso e oltre oceano, che ne cura la regia.
A interpretarlo non poteva essere che Luca Toracca, colonna storica della Compagnia, indimenticabile nei corrosivi monologhi di Alan Bennett in un paio dei quali appare en travesti nelle vesti di un’arzilla ottuagenaria o in quelli della moglie di un vicario in cerca di soddisfazioni erotiche.
Al di là dell’innegabile mestiere, la sua immedesimazione nell’autentico Crisp è davvero totale e l’adrenalinica performance suscita nello spettatore un’emozionante empatia: allusivo, malizioso e irriverente in tema di sesso, fremente nel ricordo dei soprusi e angherie subite, ironico e disponibile, come nella seconda parte degli one man show di Quentin, a rispondere alle domande scritte su bigliettini dal pubblico invitato a interagire con lui sulla scena. Abbiamo chiesto a Luca una riflessione su questa sua esperienza artistica tanto partecipata.
“Quando Ferdinando Bruni mi ha proposto il monologo su Quentin Crisp, dopo essermi informato su chi fosse questo personaggio, sono stato entusiasta della scelta. Si tratta del vissuto di un omosessuale che ha fatto del suo essere tale la sua filosofia di vita, ‘Se ho un talento non è quello di fare, ma quello di esistere’. Questo credo lo porta avanti sino alla fine dei suoi giorni. Io penso, senza voler essere il detentore della verità, che questa figura anche se non ha militato tra le fila del movimento LGBT, debba essere presa a esempio oggi più che mai, visto il periodo d’oscurantismo che stiamo vivendo”.
La libertà di scelta va difesa e protetta: pensiamo a quanta gioventù ancora oggi pone fine alla propria esistenza per la paura di un giudizio. Le lotte sinora condotte non hanno, purtroppo, sortito esito sempre positivo, ma non si deve desistere. Se Quentin si definisce un omosessuale effemminato, Luca Toracca si definisce una persona che per tutta la vita ha portato avanti l’orgoglio di esserlo. “Trovo il testo molto divertente, accattivante e nello stesso tempo profondo. Insieme a Bruni sto cercando di cavalcare l’esistenza di un essere umano davvero strabiliante.”
Nello spettacolo vediamo Quentin nella sua minuscola dimora immersa in un caos creativo, tra drappi di raso e velluto, gli immancabili trucchi, cataste di vecchi giornali e lui che indossa una sorta di marsina double face: scura e austera nella prima parte dedicata agli anni inglesi, scintillante di paillettes verdi per quelli vissuti sotto la Statua della Libertà. A supporto dell’inarrestabile flusso di coscienza, una raffinata scelta musicale che spazia dai musical d’epoca (The Boy Friend, Expresso Bongo) al Carnevale degli Animali di Saint Saëns, fino alle strepitose Andrew Sisters.
Al teatro Elfo Puccini di Milano in prima nazionale sino al 6 febbraio (speriamo presto in tournée) un mare di applausi e qualche lacrima sul ciglio di alcuni spettatori e dello stesso Luca. Per maggiori curiosità CRISPERANTO: The Quentin Crisp Archives.