Presentato al Festival Gender Bender di Bologna e al MIX Festival di Milano, il vincitore dell’ottava edizione di “Italian Council”, programma di promozione dell’arte contemporanea italiana nel mondo, racconta di un futuro distopico e caleidoscopico per la ricchezza di citazioni LGBT. Benvenute e benvenuti alla discoteca Babilonia.
Immagino che un(‘)artista non sia preso o presa in considerazione dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura se non si presenta con un’idea di forte impatto sostenuta da una ricerca rigorosa.
È indubbio che Jacopo Miliani, artista visivo nato a Firenze e formatosi al DAMS di Bologna e al Central Saint Martins College di Londra, questo bersaglio l’ha centrato con il progetto La discoteca, dove i temi centrali del suo lavoro, legati all’identità, la performatività, l’universo queer, la relazione tra il linguaggio verbale e l’espressività del corpo, sono declinati in più forme al contempo.
La discoteca, infatti, comprende la realizzazione del primo feature film dell’artista (il trailer è visibile qui) e della scultura scrittura luminosa al neon “Babilonia”, parte fondamentale del set, che entreranno a far parte della collezione museale del Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato. Viaindustriae publishing, invece, ha stampato una pubblicazione monografica che raccoglie i materiali del video e della ricerca a esso inerente: una preziosa selezione di flyer, ephemera e locandine che testimoniamo la scena della discoteca italiana a carattere LGBT dagli anni Settanta al Duemila.
Con un’estetica camp e surreale il film racconta un futuro poco rassicurante, dove un’autorità non ben precisata proibisce il ballo e il libero sfogo alle emozioni, punendo chi trasgredisce con la sua trasformazione in una rosa recisa. Anche l’amore quindi non è più contemplato, ma all’umanità resta comunque il bisogno di riprodursi. Un’applicazione digitale risolve la questione selezionando esseri umani per una serata speciale in discoteca, diventata uno spazio deprivato dei suoi codici in cui consumare un rituale di accoppiamento controllato.
È all’oscura Babilonia, nome allusivo e metaforico, che Didi (Eugenia Delbue) ed Ermes (Pietro Turano) sono invitati per unirsi, monitorati da Sylvester (Eva Robin’s), regina dittatrice del luogo che impartisce ordini e manipola le situazioni, rappresentando il rapporto conflittuale tra scelte personali e società.
Contro ogni previsione e regola imposta, la coppia per forza darà inaspettatamente vita a una sorprendente trasformazione, rivendicando una dimensione alternativa e vendicando un contesto trasgressivo di contaminazione in cui è facile perdere sé stessi e il controllo di sé stessi evadendo dalle imposizioni quotidiane, perché la danza e i luoghi della notte possono avere anche una forte carica politica e sociale. Abbiamo incontrato il regista e il cast.
Inizio con te Jacopo. “Queer” è una parola proteiforme che assume sensi e significati diversi a seconda del contesto. In cosa è queer la tua discoteca, e cosa simbolizza la rosa in questo futuro distopico?
Anche se non esiste una traduzione precisa in italiano per queer, forse una definizione è “altro, alterità”. La discoteca per me è un luogo queer in quanto è un altro mondo, un altro pianeta, altre relazioni, altri amori, altri discorsi amorosi. In questo io vedo la parola discoteca come una delle traduzioni di queer. Cosa simboleggia la rosa non sta a me dirlo. È un simbolo troppo arcaico nella nostra civiltà occidentale e non solo, ma è anche il simbolo di un fiore, di un’altra sessualità… Se vado avanti vi svelo cosa vuol dire e quindi mi fermo.
La pandemia ha bloccato i DJ e interrotto la musica. La mia sensazione è che nei nostri confronti si è quindi messa in atto una nuova marginalizzazione sulla base di una finta inclusione LGBT nel mainstream. Facciamo ancora controcultura?
Penso che il problema della controcultura non abbia niente a che vedere con il fenomeno della pandemia. Ritengo che forse abbia a che fare con diversi linguaggi che in una realtà molto veloce hanno trasformato il nostro modo di comunicare. Inoltre io non mi ritrovo molto in questa dimensione di controcultura, ma di più in quella di altra cultura, torna appunto il fenomeno dell’alterità. L’altro non scomparirà mai visto che non siamo individui singoli, ma viviamo in una società e siamo essere sociali, quindi l’altra cultura resterà sempre.
Passo a Eva Robin’s, per me tu sei una dea al di là del tempo. Come mai hai scelto di interpretare Sylvester in La discoteca?
Sylvester è un personaggio capitato al momento giusto della mia carriera, anche perché venivo da un periodo dove usavo solamente il mocio, per cui usare un mezzo con un linguaggio cinematografico per me è stato molto meglio che fare le pulizie in casa. Mi sono potuta esprimere pubblicamente con qualche cosa con cui avevo più familiarità che col mocio (ride).
Concludo con te Pietro che sei nato nel 1997. Che effetto ti ha fatto questa immersione negli anni ’80? Il video è pieno di citazioni un po’ nascoste tranne che per chi c’era in quell’epoca.
È molto divertente, anche perché io mi sento da sempre di un altro momento, giovane ma un po’ controtempo. Questo film era un po’ un gioco con dei periodi immaginabili: un universo che in realtà è avanti nel tempo, ma non lo è in tutti i sensi. C’è un po’ come una sospensione di quello che per noi è la concezione temporale lineare, è un possibile retro-futuro come dice Jacopo, un luogo di nostalgia di ciò che fu e ansia per ciò che sarà, e questo lo rende ancora più interessante.