Dopo Broadway anche il teatro italiano saluta il ritorno sulla scena di The Boys in the Band, pièce del ’68 di Mart Crowley, scritta alla vigilia della rivolta di Stonewall. Ne sono artefici Costantino della Gherardesca e Giorgio Bozzo che ci raccontano la movimentata serata di un gruppo di amici gay riuniti per festeggiare un compleanno, tra agnizioni, vendette, cattiverie e tanto bisogno di tenerezza e amore.
Siamo ancora immersi emotivamente nel ricordo delle celebrazioni del 50° anniversario dei moti di Stonewall e in memoria di questa storica data per il movimento LGBT lo scorso anno ha visto a Broadway il nuovo allestimento di The Boys in the band, pièce scritta nel 1968 dal drammaturgo americano Mart Crowley.
Il cast stellare (Zachary Quinto, Jim Parsons, Matt Bomer diretto da Ryan Murphy) lo ritroveremo a breve nel film di Joe Mantello in uscita su Netflix. Non è però la prima volta che il cinema s’interessa a questa amara commedia: già nel lontano 1970 era apparso anche sui nostri schermi Festa di compleanno per il caro amico Harold con la regia di William Friedkin che sui giornali più paludati diede la stura al più becero e reazionario oscurantismo, dove nelle recensioni di allora stimati critici si potevano leggere termini quali “Invertiti”, “perversioni”, “altre sponde” e simile ciarpame.
In una sorta di staffetta con New York, Milano ha risposto con la messa in scena lo scorso giugno di The Boys in the Band, tradotto e adattato da Costantino della Gherardesca e diretto da Giorgio Bozzo. Ma cosa c’è (o c’era) di tanto “scandaloso” nel testo di Crowley?
Un gruppo di amici gay decidono di riunirsi a casa di Michael (in piena crisi esistenziale e con problemi economici) per il trentaduesimo compleanno di Harold (autoreferenziale, cinico e spietato nelle sue battute fulminanti ma anche terribilmente lucido). Nell’appartamento a Manhattan si succedono gli arrivi di Donald (con cui Michael in passato ha avuto una storia), quelli della coppia dall’equilibrio instabile formata da Hank (separatosi dalla moglie per vivere consapevolmente la vera identità) e Larry (giovane e bello, ma incapace di fedeltà e dichiaratamente promiscuo), poi è la volta del nero Bernard che non riesce a liberarsi dai fantasmi di una povera e difficile adolescenza e infine irrompe Emory, arredatore alla ricerca frustrata del “vero uomo”, ovviamente eterosessuale, personaggio forse un po’ troppo stereotipato anche per quei tempi.
L’atmosfera, anche grazie ai molti drink, sembra distesa, nonostante gli scambi di cattiverie varie che mettono alla berlina le debolezze di ognuno di loro: a turbarla sopraggiunge Alan, compagno di college del padrone di casa, sposato con figli ma in crisi coniugale, da subito “inspiegabilmente” attratto dall’affascinante e altrettanto mascolino Hank. Tutti hanno portato un regalo per Harold: manca solo quello di Emory che infine si palesa. È una marchetta vacua e un po’ sciocchina sul modello “cowboy di mezzanotte” allora in voga (visto il destinatario del dono e con i gusti che imperano nel nuovo millennio, oggi Crowley avrebbe scelto ben altra tipologia di escort…).
Grazie alle pulsioni distruttive e autodistruttive di Michael, la festa si trasforma presto in un gioco al massacro dove nessuno viene risparmiato. Sua è infatti l’idea di una telefonata che tutti devono fare alla persona che hanno segretamente amato o che ancora amano, senza mai confessarglielo. Riaffiorano prepotenti i dolorosi ricordi di passioni non corrisposte come quelle di Bernard e Emory, si disvela l’omosessualità di Alan, esplode il conflitto tra Hank e Larry che non riescono a convivere serenamente, vengono alla luce le contraddizioni dello stesso Michael. Riusciranno tutti a trovare una sorta di pacificazione e un equilibrio esistenziale pur precario?
Bene ha fatto Costantino a non stravolgere il testo con una delle infelici trasposizioni nella realtà odierna e in ambito italiano che spesso vengono riservate ai testi angloamericani, ma lavorando soprattutto sulla lingua e lo slang gay che risulta assai efficace e aggiornato. Detto questo, dobbiamo riconoscere a Crowley di averci regalato una sorta di istantanea di un periodo storico
che i diversamente giovani ricordano bene, ma divenuto comunque remoto e estraneo allo sguardo odierno (basta solo citare lo spartiacque che l’AIDS ha creato dagli anni Ottanta), che però osserviamo con tenerezza e empatia.
Ciò che invece dobbiamo mettere a frutto dalla pièce è la consapevolezza che quella realtà fatta di mancanza di diritti, soprusi, discriminazioni, clandestinità e menzogne (che solo l’anno seguente avrebbe cominciato a esser messa in discussione dai più coraggiosi) potrebbe riaffacciarsi ai nostri giorni anche se, superficialmente, ci pare impossibile: non è di queste ore il proclama di un sedicente Capitano che pensa di metter mano – per soli fini elettorali – al sacrosanto diritto dell’aborto conquistato dalle donne?
La regia di Giorgio Bozzo asseconda, pur con qualche staticità, l’azione corale dei personaggi. Gli attori, Francesco Aricò (il suo Michael deve ancora scavare nella complessità del personaggio), Samuele Cavallo (Alan), Angelo di Figlia (Emory), Gabrio Gentilini (Donald), Michael Abibi Ndiaye (Bernard), Yuri Pascale Langer (cowboy) sono tutti impegnati in un generoso gioco di squadra.
Menzione speciale per Paolo Garghentino (un Harold eccellente nella sua negatività che adombra disperazione e bisogno d’amore), Ettore Nicoletti (volitivo e al tempo stesso fragile Hank) e Federico Antonello (libertino ma sincero Larry). Ripresa al teatro Nuovo di Milano, affollato e plaudente, in attesa di un’auspicabile, lunga tournée.